Il rapporto tra Massimo e Gaia stava prendendo una piega strana. Come sempre l’inizio era stato sfolgorante, quasi che il tempo non fosse mai abbastanza. Poi ad un certo punto, di colpo, tutto era cambiato. Si continuavano a vedere, certo. Scopavano, sì, eccome. Ma c’era qualcosa in lei… qualcosa…una specie di impazienza, ecco. Trascorreva le serate col fidanzato come se stesse accompagnando giù il cane a pisciare. Un giorno, mentre camminava per Parma immerso con tanto di bombole e pinne nel tumultuoso oceano dei cazzi suoi, Massimo incrociò Gaia abbracciata a un tizio. Il tempo si cristallizzò per una frazione di secondo. Gaia fece un passo avanti. Guardò Massimo. Guardò il tizio. “Lui è mio cugino”, disse imperturbabile. I due si guardarono un po’ storto. “Piacere, Marco”. “Massimo, ciao”. “Scusaci, Massi, dobbiamo… abbiamo fretta. Ciao, eh, ciao…” Gaia riprese il braccio di Marco e lo strattonò via. L’idea era far credere a Marco che Massimo fosse il cugino, e viceversa. Eppure nella testa di Massi la perplessità continuava a crescere, ineluttabile come un conato. Quella sera decise di sbronzarsi, in modo da vederci più chiaro. Naturalmente non approdò a nulla, ma la mattina successiva si sentiva come se avesse ingoiato un intero termitaio. S’inventò una scusa per non andare in ufficio. Nel pomeriggio stava un po’ meglio. Però le termiti s’erano trasferite tutte di sopra, nel cervello. Concluse che avrebbe dovuto chiarirsi con Gaia. Ma non al telefono. Di persona. Per farsi coraggio s’era già fumato quattro o cinque sigarette passeggiando avanti e indietro, lanciando occhiate furtive al portoncino di ingresso. Sì, aveva deciso: avrebbe suonato. Proprio ora. Sì. Gettò a terra il mozzicone e s’avvicinò alla porta con lunghe falcate, la testa vuota, il braccio teso, l’indice puntato diritto davanti a sé. Nell’istante in cui fece per premere il campanello il portone si aprì. Era Martina, la co-inquilina di Gaia. Gli sorrise: “Ciao Massi!” e gli sfilò svelta di fianco. Pareva animata da una certa fretta. Massi ricambiò il saluto e s’infilò dentro prima che scattasse la serratura. Pochi gradini e si sentì strattonare per un braccio. “Massi, MASSI! Ascolta…” Era Martina. Pallida, scompigliata, occhi sgranati come bottoni. Aveva il terrore tatuato sul volto. “Che c’è Martina? – sogghignò – Ti sta forse correndo dietro Freddy Krueger?” “Massi, ascolta, devo dirti una cosa!” Continuava a stiracchiarlo. “Sì, ma ora devo…” “NO! Devo parlarti adesso!” squittì. Un altro strattone. Massimo s’arrestò sul pianerottolo. La squadrò. Un pensiero gli razzolava per il cervello, ma porcatroia non gli riusciva di afferrarlo. “OK, che c’è?” chiese. “Ecco… io… vieni di sotto, dài, ne parliamo giù al bar”. “Ora non posso, Martina, devo parlare con Gaia. E’… importante. Cerca di capire”. Martina rimase in silenzio per qualche secondo. Poi gli si avventò addosso e fece per baciarlo. In quel preciso istante Massimo agguantò il pensiero malandrino. La respinse. Disse gelido: “Forse era meglio se stavi di sotto ad avvisarla al citofono, non trovi?” S’incamminò nuovamente su per le scale ignorando le sue suppliche. Quando entrò nella stanza Gaia era sempre abbracciata a suo cugino Marco. Però stavolta erano orizzontali invece che verticali e nudi anzichè vestiti. “Intuisco che siete parenti molto stretti” disse, ed uscì sbattendo contro Martina che accorreva allarmata.
Quella sera, seduto al bancone con me, Nicola e Franco, Massi ci raccontava la sua storia e intanto beveva tutto quello che gli capitava a tiro sopra i trenta gradi di alcol. Serata speciale: avevamo il Chinaski tutto per noi. Era la festa di laurea di Nicola. Saremo stati una quarantina. “Puttana, puttana! PUTTANA!” sbraitava Massimo e intanto sbatteva il bicchiere vuoto sul bancone. Il barista recepì il messaggio e gli versò un altro whisky, spillandogli l’ennesimo pezzo da dieci. Noi annuivamo, bevevamo e fumavamo con lui. Eravamo ubriachi duri tutti e quattro. Potrà parere poca cosa, eppure si tratta della massima forma di solidarietà maschile di cui un uomo è capace, in siffatte circostanze. “Eccone un’altra!” fece Franco compiaciuto. Ogni volta che il barista si girava lui si allungava e fotteva una bottiglia di spumante. La stappò, tossendo in modo da mascherare il rumore. Era la sesta che ci scolavamo in tre. Massi no, lui quella sera andava soltanto a superalcolici. La porta del locale si aprì. Mi girai a guardare. “Ommerda!” dissi. Era Gaia. “Puttana! – esclamò Franco – Puttana!” Massi mi afferrò il braccio: “No, no… non… ti prego, no…” biascicò. Brutta bestia il whisky. Disperso com’era nella nebbia alcolica che gli ottenebrava il cervello, a Massi non riuscì di rendersi conto che mentre lui s’affaccendava a zittire il già silenzioso sottoscritto, Franco s’era alzato in piedi e, bicchiere in mano, saltellava al centro della stanza con tutti i suoi cento e passa chili. “PUT-TA-NA! PUT-TA-NA! PUT-TA-NA! PUT-TA-NA!” cantilenava muovendo le braccia nell’aria come un direttore d’orchestra. Stava rovesciando lo spumante addosso a tutti. Qualcuno sapeva qualcosa di Massi e Gaia, ma la maggior parte della sala si unì a lui in un unico coro istintivamente, per puro senso di appartenenza: “PUT-TA-NA! PUT-TA-NA! PUT-TA-NA!” gridavano all’unisono, le braccia alzate come tifosi allo stadio. “PUT-TA-NA! PUT-TA-NA! PUT-TA-NA!” Per qualche secondo la ragazza rimase come impietrita. Poi girò i tacchi ed uscì dal locale sbattendo la porta. Franco smise di dirigere la sua personale sinfonia, si girò verso di noi e sorrise gongolante. Massimo era di fianco a lui, ora, inutilmente aggrappato al suo braccione, zuppo di spumante. “Volevo dire una cosa… ehi, EHI! ASCOLTATEMI!” prese a sbracciarsi fino ad ottenere l’attenzione di tutti. “Ecco – proseguì – niente… volevo soltanto informarvi che quella era Eleonora, la sorella maggiore di Gaia”. E si risedette. Non credetti alle mie orecchie. Due gocce d’acqua. Neanche fossero gemelle. Per alcuni anni, ancorché soltanto di rimando, mi sentii in qualche modo debitore di qualcosa nei confronti del destino. Poi l’anno scorso ebbi una fugace storia proprio con Eleonora. Il conto è stato saldato, ora. Posso confermare che Franco non s’era affatto sbagliato. Pure Eleonora è puttana. Davvero una gran puttana.
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