Era un manicomio davvero particolare.
Vi fui rinchiuso anch’io, non molto tempo solo grazie ad una fortunata circostanza. Facevo il parrucchiere. Ero orgoglioso del mio lavoro, perché lo avevo scelto fin da bambino con grande convinzione. Mio padre, egli pure parrucchiere, ne era entusiasta almeno quanto me. Per non parlare di mio nonno, parrucchiere in pensione da poco.
La mia è una famiglia di parrucchieri da generazioni, da secoli… Più retrocedo nel tempo a cercare un mio antenato, più costui sarebbe orgoglioso di me e del fatto che anch’io facevo il parrucchiere.
Mai un solo cliente, dei tanti, innumerevoli di cui ho conosciuto la nuca e dei quali ho esplorato la fauna cranica, è venuto a recriminare per una barba rasata male, o un taglio che non fosse perfetto in simmetria e precisione.
Mai una signora si è lamentata di una frangia troppo corta o troppo lunga, né di una tinta non riuscita com’era nei propri desideri, nonostante le lamentele siano il principale argomento di conversazione delle signore.
L’attenzione che dedicavo alla cura dei capelli altrui era minuziosa, scrupolosa, ma senza dubbio modesta rispetto a quella che avevo nei riguardi dei miei. Amavo lavare e pettinare la mia chioma ogni giorno. La sua lunghezza accresceva il piacere che provavo nel far scorrere il pettine fra le piccole ciocche, seduto davanti allo specchio. I miei capelli erano lunghi, vaporosi, biondi e lisci come lame di spada.
Mi crederete un narcisista... Ebbene, devo ammetterlo, lo sono. Ma non è questo il punto.
Tutte le donne che approdavano alla mia boutique desideravano avere capelli perfetti e luminosi al pari dei miei: con il mio talento riuscivo sempre ad accontentarle. Il lavoro rappresentava la cosa più importante per me, mi rendeva felice e realizzato.
Una notte mi svegliai di soprassalto, nel bel mezzo di un incubo terrificante, in preda ad un fortissimo prurito in testa. Una voce martellante nel sogno ripeteva: “Ciò che abbiamo preso l’abbiamo lasciato, ciò che non abbiamo preso lo portiamo con noi”. Era l’enigma che, secondo la leggenda, l’Oracolo pose ad Omero, ch’egli non riuscì a risolvere e per il quale morì di dolore. La soluzione di quell'enigma ce l’avevo in testa: i pidocchi.
Da dove provenissero non lo sapevo, né conoscevo il motivo per cui avessero scelto la mia testa come luogo di villeggiatura. Non morii di dolore come Omero, tuttavia impazzii. Tentai di strapparmi i capelli, poi, forbici alla mano, tagliai grosse ciocche ululando dalla disperazione. Avevo completamente perso il senno perché mi ritenevo un fallito. È chiaro, limpido come il cielo di oggi.
Fui presto rinchiuso in manicomio: il Manicomio delle arti e dei mestieri. Si chiamava così perché vi erano internate persone impazzite a causa del lavoro che svolgevano. Proprio come me. Alcuni degli internati erano impazziti per delle vere e proprie inezie: un calzolaio al quale si era slacciata una scarpa; un pizzaiolo che aveva bruciato una pizza (e in seguito l’intera pizzeria, ma era già pazzo); un tassista che aveva preso una multa per divieto di sosta; un pianista che, colpito da un crampo al dito durante un concerto, aveva lasciato gli spettatori sconcertati. C’era anche un veterinario violentato da un cavallo che aveva in cura (uno dei casi clinici più seri); una lavandaia chiusa per errore dentro la lavatrice e centrifugata per dodici minuti (altro caso molto delicato); un ingegnere al quale era caduta la matita che soleva riporre all’orecchio; un pittore che, mentre camminava con un coltello in mano, era inciampato squarciando una tela (la quale, tra l’altro, ora vale tantissimo ed è considerata un capolavoro); un generale che aveva perso una battaglia al video-games del nipotino; un bergamino che, nel mungere una vacca, aveva ricevuto un tremendo calcio sulla fronte per le averle stretto troppo vigorosamente le mammelle... E la lista dei degenti sarebbe ancora lunga.
Solitamente si trattava di individui completamente assorbiti nel permeabile pannolino del lavoro, per i quali un errore, anche banale, significava il fallimento nell’unica cosa che contasse nella loro vita. Al manicomio lavorava uno scienziato, anch’egli pericolosamente aggrappato all’esile ramoscello della ragione sopra il precipizio della follia. Egli si arrovellava giorno e notte in continui e faticosi esperimenti per cercare la terapia adeguata a ricondurre tutti noi alla normalità.
La fortunata circostanza fu che vi riuscì. Guarimmo tutti, ad eccezione della lavandaia, che soffre ancora di frequenti capogiri, e del bergamino: del resto, era sempre stato dubbio se la sua condizione derivasse dal fallimento professionale o dal forte trauma cranico provocato dalla zoccolata bovina. Ora è evidente la seconda ipotesi.
In seguito il manicomio fu chiuso. E' probabile che, se lo scienziato avesse fallito nel tentativo di trovare la cura, anziché guarirci tutti sarebbe impazzito anche lui, ed io non avrei mai più potuto riprendere il mio lavoro di purrucchiere.
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