Renato aveva appoggiato sul tapirulan, in ordine crescente, dal deodorante ecologico alla mozzarella alla latta di birra analcolica alla cassa da sei, in fila come soldatini, e rimirava il lavoro con un sorriso lieve. Renato era un bravo ragazzo, anche sua madre glielo ripeteva, almeno una volta al giorno. Non lasciava mai mutande in giro, e diceva sempre grazie. Aiutava gli anziani ad attraversare la strada e si offriva di accompagnarli a casa e talvolta mangiava con loro e si facevano compagnia e Renato raccontava tante barzellette che non capivano mai e allora Renato rincuorato confessava che nemmeno lui le aveva mai capite bene ed anzi non gli piacevano granché. Renato era alto uno e settantanove e gli dispiaceva un po’ per quel centimetro che negava la cifra tonda, però le ragazze quando lo vedevano esclamavano raggianti: “Guarda Renato!” e sembrava che non si accorgessero di quel traguardo mancato. Renato portava i capelli anni cinquanta, ma con l’aria di chi non ci tiene o che non si rende conto, e aveva una moto anni cinquanta di cui era fin troppo consapevole, e che lasciava in panne una volta su due a pochi metri dal supermercato. Renato aveva scelto la cassa 24 perché la persona che aveva davanti era un giovanotto spiccio, e la cassiera, pur non attraente, aveva un’aria molto professionale. Il giovanotto stava mettendo in borsa le sue poche cose con una velocità sorprendente, al limite del funambolico, e infatti faceva proprio il giocoliere professionista, ma questo Renato non lo poteva sapere. Alla fine dei propri acquisti Renato fu dispiaciuto di non poter mettere la barretta separatrice “cliente successivo”, ma dato uno sguardo intorno vide che l’aria era pulita, clienti successivi a quell’ora non ce n’erano, la sua spesa di razza ariana attendeva in solitudine sul tapis perfettamente pulito, e grazie ancora una volta alla hostess di cassa. Mai e poi mai avrebbe fatto spesa altrove. Davvero tutto troppo perfetto, a parte il “cliente successivo” non disponibile. Mentre ammirava il giovanotto lanciare verso il soffitto un vasetto di maionese e un cartoccio di latte, aspettarli paziente e indifferente e immobile e poi proprio mentre sembravano destinati a infrangersi sul pavimento, accalappiarli con la borsina – oh, faceva la cassiera meravigliata – vide spuntare sotto la propria ascella una manina esile ed abbronzata, come una parte sconosciuta di sé, e per un attimo si spaventò fino a produrre una roca vocale che si smorzò dietro i denti. Si girò con estrema lentezza, senza il coraggio di guardare, e intravide una sagoma delicata di piccola femmina, quasi abbarbicata a lui come un’edera, avvinghiata intorno con le dita prensili come radichette, ma senza toccarlo, no. Però, oh che profumo, più che edera, più che profumo, era la pelle che cantava, la tenera pelle di una dea distratta. “Guarda dove mettono le cicche” cinguettò la dea, quasi a giustificarsi, e le radichette dalle estremità laccate di perla si ritirarono leste. “Cosa sono le cicche? – pensò – si dice gomme da masticare. Come si dice cacca, ma è giusto feci”. L’esile figura – ne sentiva i movimenti, ma non osava guardare – iniziò come cappuccetto rosso a estrarre la sua roba dal cestello. Il bello era che parlava come cappuccetto. “Questa è la focaccia per la nonna malata – diceva – questo è il pane fresco. Che scomodo abitare nel bosco” diceva. Renato ricordò con orrore che sul tapis, fra la focaccia per la nonna e le proprie geometriche costruzioni mancava la barretta spaziatrice. Guardò il soffitto con aria disperata, poi preso dal panico alzò un dito per richiamare l’attenzione di una guardia giurata, ma il giocoliere, dopo aver lasciato cadere dalla manica nella mani della cassiera, come un rubinetto aperto, mille monetine da un centesimo, lasciò disponibile la barretta invitante e consolatoria. Renato se ne appropriò con un gemito e la pose fra sé e quella dea cappuccetto. Le distanze erano ristabilite, il suo viso estatico era quello di un uomo che ha appena liberato la vescica sull’orlo dello scoppio. La cassiera gli fece un sorriso smunto, sbattè un paio di volte le palpebre, si fermò, estrasse dalla tasca il collirio, ne mise una due gocce ad entrambi gli occhi. “Non più di due volte al giorno!” esclamò riponendolo. Davvero professionale. Dal deodorante ecologico, in ordine crescente di prezzo e di grandezza, i pezzi passavano lesti dalle sue mani, certo non veloci come quelle del giocoliere, ma comunque avvezze a manipolare migliaia di prodotti. Eppure lei sembrava felice di quel suo braccio meccanico, e ad ogni bip di lettura le sue labbra sembravano sul punto di accendersi in un sorriso. Un profumo, ancora quel profumo, si avvinghiò abbarbicò strusciò contro il suo dorso. Si girò quanto bastava per vedere un paio di tettine piene passargli sotto il naso. Se ne andavano quasi da sole, galleggiando nell’aria come due palloncini gonfiati ad elio, verso un pacchetto di liquirizie. Dalle tettine spuntò una radichetta prensile perlata, graziosa davvero, che prelevò. “Trentasei euro al chilo per un pituto così!” esclamò la dea edera incappucciata. Pituto non esisteva in italiano. Un vero orrore. Uno scandalo, un affronto. Come si permettevano, certe donne, di andare liberamente in giro munite di siffatto bagaglio lessicale? Si girò e la dea non c’era, però la sentì abbarbicarsi con grazia fra le gambe, sfiorandogli appena i peli scoperti. Con malcelato terrore Renato guardò verso il basso. “Borsina!” disse la dea sorridente, che l’aveva prelevata da un pacco ai suoi piedi. Bei piedi da uomo molto bianchi, unghie curate, infilati in sandali in vero cuoio. Renato sollevò la testa e guardò la nera barretta spaziatrice che divideva i due mondi, e si preoccupò che nessuno la portasse via, la proteggeva come una figlia, e talvolta il suo occhio osava espatriare appena più dietro, dove la dea edera, profumata di pelle estiva, parlava da sola, talvolta ridendo. Mise le proprie cose nella borsina, con una alacrità quasi da giocoliere, mentre la cassiera gli comunicava l’ammontare della spesa, con il sorriso brillante di due denti d’argento. Renato pagò e al momento di incamminarsi gli sembrò come in quei sogni dove devi scappare e più corri più stai fermo, il carnefice si avvicina, le gambe perdono forza eppure le muovi, oh, se le muovi. Ecco il profumo divino di lei, ecco la sua voce squillante. “Signore, signore!”. Renato si voltò. La signorina rampicante, una cascata di fascino che l’avrebbe perduto, agitava un deodorante ecologico. “E’ suo!” disse, accennando un passo nella sua direzione. E Renato riesumò quella vocale che gli era morta dietro i denti, e che cadde a terra come un sassolino, con un rumore di “o”. “O” disse più forte accelerando la corsa verso l’uscita con l’aria di chi ha visto la morte, le borsine bianche che sobbalzavano ai fianchi come due ali ancora troppo piccole per volare. La vocale echeggiò senza sosta, a intervalli regolari, come il verso di un uccello notturno, e si perse nella strada assolata.
ROBIROBI [cpkpst@tin.it]
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