Qualcuno stava palleggiando con il mio gluteo floscio. Ho pensato che fosse la sveglia. Dalle mie parti le sveglie sono delle persone che ti tirano giù dal letto: "In piedi!" urlano. Poi finisce che una volta in piedi ci si guarda intorno per vedere se ci sia qualcosa da fare, ma di solito è tutto tranquillo, allora ci si corica a meditare e comincia la giornata. Qui nel mondo di adesso ho visto campanili chiamare per i morti e gli sposi e le preghiere, annunci radiofonici di chiusura dei supermercati, campanelle di scuola, sirene di fabbrica, allarmi antifurto. Ho visto uccellini di legno che uscivano dall’orologio all’ora esatta, allora pensavo che la sveglia che avevo comperato, e che avevo sistemato alle mie spalle sopra uno spuntone di roccia, utilizzasse uno scarpone e contavo i calci per capire che ora fosse. Al ventesimo colpo sono stato assalito dai dubbi. Forse era un animale feroce. Da noi gli animali feroci si svegliano, fanno un giro per vedere se ci sia qualcosa da fare, poi tornano a dormire. Qui ho sentito di certi cani amici dell’uomo che di tanto in tanto sbranano qualche amico dell’uomo, allora, sapete, mi sono girato un po’ titubante, direi che ho imparato a conoscere la paura. Mi aspettavo di vedere zanne rilucenti sotto la luna, non un piede. Il piede non usciva dalla sveglia, ma era attaccato a quella cosa che tutti universalmente chiamano gamba, e così via, alla gamba era attaccato qualcos’altro e insomma per farla breve si trattava di un uomo. Di due, anzi. Avevo sentito di uomini che sbranano uomini, quindi non ero molto più tranquillo. "Ave!" ho esclamato. Il latino è una lingua galattica, non è per niente morta, nella quarta galassia a sinistra è la lingua di gran lunga più diffusa, per esempio. Questi non sapevo da quale galassia arrivassero, ma erano ben strani. Avevano una paletta infilata negli stivaloni neri, che forse serviva per grattarsi le caviglie o per scacciare gli insetti. Erano vestiti uguali, come gemelli in crisi di identità, un berretto con visiera e gli occhi nascosti sotto, però erano diversissimi, uno era smilzo e l’altro ancora più smilzo, un filo di lama, quasi. "Che minchia stai dicendo?" mi ha detto lo smilzo. "E’ il saluto romano" ha suggerito il sottosmilzo. "Te saluto" ho aggiunto. "Parla pure romano". "Siete di queste parti?". Lo smilzo e il sottosmilzo si sono guardati. "Tu, piuttosto". "Eh" ho fatto io indicando la pancia dell’orsa maggiore. "Extracee, immagino". "Ex coelis, per l’appunto". Il sottosmilzo si è chinato. Si confondeva fra i fili d’erba nell’alba incipiente. "Permesso di soggiorno? Contratto di affitto?". Aveva dei baffetti neri, sottili, diritti, che incrociavano la linea del corpo. Permesso? Contratto? Soggiorno? Affitto? Ho mostrato la tessera del panettiere, che ti dà diritto a un panino in regalo ogni cinquecento chili acquistati. Lo smilzo mi guardava con aria compassionevole e scuoteva la testa. "Di chi è questo campo?". Da noi, dentro la pancia dell’orsa maggiore, uno spazio è tuo quando lo occupi. Non puoi dire che è tua quella montagna là o quella camera lì, non perché sia proibito, ma perché non ha senso. Uno è padrone dello spazio che occupa per una pura legge fisica. Io possiedo lo spazio che il mio corpo riempie, dicevo ai due sonnambuli. Il campo non è mio, dicevo, ma è mio il volume che occupo sul campo. Il sottosmilzo si è girato verso il compare. Sbatacchiava la mia tessera PANEM - 1 X 500! Sul palmo della mano e faceva dei cenni del capo. "Alzati" ha detto lo smilzo, mi ha messo le mani addosso, mi faceva ridere, non sopporto il solletico. "Buono" mi ha detto il sottosmilzo, evanescente davanti alla luce che preannunciava il sole. Ha gettato nell’erba la mia tessera ed è andato a controllare sotto il tetto. "Sembrano fori di proiettili". "Mi hanno sparato". "Come mai?". "Penso mi abbiano scambiato per un lupo". "E non per un ladro?". Ho riso di nuovo, lo smilzo mi solleticava dappertutto. "Io non ho l’ombra del ladro. Del lupo o dell’orso, magari, ma non del ladro". Lo smilzo si è impadronito del mio portafogli. Ci ha guardato dentro. "Guarda guarda" dice al sottosmilzo, quasi dissolto dai primi raggi. "E’ il mio stipendio" dico. "Vedobèn" dice lo smilzo. Ha tirato fuori una banconota da cento. "Questi sono nostri". "Impossibile, sono nel mio portafoglio". "Erano" dice lo smilzo, e guarda quella crocetta corpo e baffi che è il suo compare. Il quale ride di gusto, eppure non lo vedo più. "Non capisco" dico. "Per l’affitto, il permesso, il soggiorno, il contratto". Me li sventola sotto il naso. "Capito?". Se ne sono andati verso la strada. Dopo un po’ ho sentito il rumore lontano di un motore affievolirsi nel silenzio della campagna. Ho raccolto la tessera del pane. Il disco nel cielo era bianco e freddo, come una nuova luna. Continuavo a non capire. Ho cercato consolazione nella pancia dell’orsa, e anche se le stelle erano scomparse io sapevo che là dove stavo guardando c’era il mio mondo che mi aveva perso e che forse non mi cercava nemmeno, perché là sono altre le cose che si cercano. "Buongiorno, paese del sole!". Mi sono guardato intorno. Gli alberi mi circondavano con indifferenza. "Avete passato una notte tranquilla, al caldo sotto le coperte? Sveglia, pigroni, è ora di andare al lavoro!". "A te non do nemmeno un soldo" ho detto alla voce che usciva dalla sveglia. L’ho zittita schiacciando un bottone, e mi sono sentito un dio.
ROBIROBI [cpkpst@tin.it]
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