L’appuntamento sarebbe nel parcheggio scambiatore dell’autostrada. Perché ‘sarebbe’? E’. E’ che quando arrivo Elena è già là che mi aspetta. Ci salutiamo senza nessuna voglia di salutarci. Tre baci e un grugnito. Abbiamo occhi grandi e sguardi fissi. Muoviamo il collo a scatti come i tacchini. Vorremmo entrambi essere altrove. Possibilmente nei nostri rispettivi letti a dormire diciamo altre tre o quattro ore filate. Partiamo. Il cielo ha lo stesso colore dell’asfalto che scivola lucido sotto le ruote, pioviggina e i pensieri palleggiano stolidamente da una parte all’altra del cranio con un movimento lento e circolare, lo stesso dei tergicristalli sul lunotto. Io guido, Elena sonnecchia. Però, che due maroni. “GRAZIE DELLA COMPAGNIA, EH, TE!” sbraito a un certo punto. Elena sobbalza. “Ooorgh... ce l’hai mica una copia del fumetto?” “E’ didietro”. Elena lo piglia, se lo mette davanti al naso e ci dorme dietro per un po’. Di tanto in tanto emette un rantolo che dovrebbe suonare come una risata, così da dissimulare la sua criminosa attività. Ha fatto le tre, ieri sera. Beh, io pure. Usciamo dall’autostrada e ci addentriamo nella Garfagnana. In qualche modo la stanchezza ha lasciato il posto a uno sfrigolante ottimismo. Proprio così, amici: non vediamo l’ora di arrivare. Elena ruota continuamente la cartina che ha tra le mani e bofonchia qualcosa che suona come “Mumble... mumble...”. Ha in mano una cartina grossa come un’icona del desktop e nella zucca il senso d’orientamento di un fiocco di neve in una spiaggia cubana. Ci perdiamo immediatamente. Percorriamo la strada tutta tornanti che dovrebbe condurre all’agriturismo tre, quattro, cinque volte, facendoci largo tra la colorita fauna umana locale. Ciclisti attempati, nonnetti strafatti e vigilesse sado-maso, allettanti ‘fiere del tordello’ e osti a dir poco sconcertanti. Giungiamo finalmente all’agriturismo. Il padrone di casa è un Aldo Busi con la pancia, che ci accoglie con una cordialità tutta toscana. Ci stritola la mano, ci fa accomodare, cerca gli occhiali de’ la su’ mamma, ci indica la strada breve per Lucca, quella più lunga ma meno trafficata, ci mostra la stanza da letto, il bagno e il soggiorno, i piatti, le tazze, le posate e i detersivi, ci parla della ‘fiera del tordello’ di Camaiore e pure del traffico autostradale di ieri, oggi e domani, ci consiglia i migliori ristoranti della zona. Tutte queste cose contemporaneamente, andando e venendo per la stanza conla frenesia di un metronomo a un concerto dei Napalm death, infarcendo il monologo con una lattiginosa costellazione di ‘diohane’.
Poca gente, molto fango e nel cielo un sole bianco che avrebbe più voglia di noi di tornarsene a letto: ‘Lucca comics and games’ si spalanca davanti ai nostri occhi come una malinconica nota jazz in sordina. Parcheggiamo e ci incamminiamo verso il centro. E’ autunno un po’ dappertutto e i marciapiedi sono scivolosi di foglie marce e fango puzzolente. Gli altri sono già tutti là, chi da giovedì sera, chi da venerdì. Siamo più di dieci. Noi, io e Elena, buoni ultimi. Si tratta della prima volta di Tapirulan a Lucca comics. Siamo qui per vedere se qualcuno ci nota. Tra le cose, presentiamo un fumetto autoprodotto, scritto da un certo Alberto Calorosi che sarei io, disegnato da un cert’altro Andrea Gualandri, che sarebbe quello là mezzo pelato, e prodotto da French. Nessuno sa bene che cosa aspettarsi da questa iniziativa. Venderemo il fumetto? Piacerà? Raccatteremo consensi? Pioverà? Il cielo si apre e da qualche cartoonesco limbo pagano piove in strada una folla di curiosi, molti dei quali azzimati in maniera alquanto bizzarra. Tutine aderenti, latex, scollature generose. Bella cosa il cosplay, a conti fatti. Anche nella self-area dove siamo parcheggiati noi i curiosi non mancano. La star naturalmente non sono io. Voglio dire: avete mai sentito parlare di uno sceneggiatore famoso? Di uno sceneggiatore che non sia diventato famoso come regista, intendo. Negli anni cinquanta, in quel di Hollywood, per dire che un’attrice non avrebbe mai sfondato si era soliti dire: ‘Quella? Figurati che per fare un po’ di carriera ha dovuto darla a uno sceneggiatore’. E così la star è Gualandri, il quale fuma, autografa e disegna tutto il tempo. Per lui, orde di ragazzine adoranti e concupiscenti. Toccherà a Elena e me, al termine della due-giorni, l’ingrato compito di estrarlo in fin di vita da sotto un totem di reggiseni di pizzo profumati alla vaniglia. Giunge la sera e con essa un discreto freschino. Sbaracchiamo in fretta e ci autoinvitiamo tutti a cena da Gualandri.
Dopocena vorrei tanto andarmene a dormire, ma il destino vuole diversamente. Pare che da qualche parte qua vicino ci sia una festa superfica. “Eddài, siamo cotti come manicaretti. Lasciamo perdere e filiamo a letto, dài”, insisto io. In quel momento squilla il cellulare. Fanta e Faso c’hanno una cartina che risale alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente e un ferrovecchio che ha lo stesso numero di cavalli di una quadriga. Appena gli nomino l’Esselunga fanno “Che cosa?” “L’Esselunga, quella dove si fa la spesa”. “Messere trovasi forse codesta Esselunga al di là del vallo che testé circumnavigammo?” Sono sbronzi. Sono le tre passate quando si fanno finalmente vivi, preceduti da un dotto abbecedario di madonne. Non era mica l’Esselunga porcoqui porcolà. Era un’altra roba, che ci somiglia. Evabé. Noi siamo lì fuori che ciondoliamo perché la festa è davvero mesta e se decidiamo di fare un altro giro di birra è soltanto in onore dei compari appensa arrivati. Poi tutti a letto, eh? Quattro birre: una per Faso, una per Fanta, una per me e una quarta per lo Zino, impegnato da alcune ore a tenere su il muro. Fanta annuisce, Faso annuisce, io annuisco. Arriviamo tutti insieme, quattro birre ciascuno. Dodici in tutto. Al termine delle quali persino la festa mesta non sembra essere poi così male…
Domenica è l’ultimo giorno. Al momento di chiudere bottega siamo stanchi ma soddisfatti. Il fumetto è piaciuto e, seppure nei nostri numeri men che modesti, qualcosa ha venduto. Ma io ho dentro uno strano senso di incompiutezza: la sensazione che la cosa, ancorché carina, si sia limitata a esistere per se stessa. Siamo andati là per farci vedere, d’accordo, e qualcuno in effetti ci ha visto. E ora? Che fare? Abbiamo davvero imparato qualcosa? Forse siamo cresciuti un po’? O abbiamo soltanto perso una buona occasione? E ora? Ora non so. Guido silenzioso nella notte assorto in codesti pensieri. ‘Ragged glory’ di Neil Young in autorepeat fa quello che può nel tenere lontano la spossatezza. Elena, di fianco a me, è pure lei assorta in qualche cosa di molto ma molto remoto. Fa lunghi sospiri. “Tutto bene?” domando. “Sì, sì. Tutto bene, grazie. Tutto bene”. A un certo punto interrompe il silenzio. Mi afferra il braccio e stringe forte. Sobbalzo. Mi lancia un’occhiata solenne. “Ma te lo sapevi – dice in un fiato – lo sapevi che l’anno prossimo butteranno giù il ‘Rolling stone’?”
UFJ [ufj@tapirulan.it]
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