L’imponente Bialetti da 12 nella sua armatura d’alluminio dominava la cucina dal fornello spento. Il caffè aveva posto fine alla dura battaglia di quella sera. La moka da 12 raramente abbandonava lo stipetto in cui alloggiava. Il suo ingresso era foriero di grandi manovre in cucina. All’apparire del suo beccuccio le posate snaccheravano nel cassetto (specie quelle da dessert, che uscivano così di rado!), le bottiglie in dispensa tremavano nel sughero del tappo e le antipastiere lanciavano urla deliranti. Il suo incedere lento e maestoso, simile a quello di un’ammiraglia all’ingresso del porto, metteva soggezione alle caffettiere da 2 e da 3 (quelle di ogni giorno), che si ritiravano silenziose e sfatte in un angolo dello sgocciolatoio. Il campo di battaglia veniva apparecchiato con cura, nessun dettaglio lasciato al caso: tovaglioli raffinati si spiegavano a ventaglio accanto agli scudi dei sottopiatti. L’esercito delle posate si schierava in falangi precise, piatti e fondine atterravano dal cielo in squadriglie ordinate. Disposta l’artiglieria pesante, ci si preparava allo scontro. Dalla cucina giungevano sentori di quanto sarebbe stato consumato di lì a poco. Sul fornello le pentole brontolavano enti rosari di bollore, crepitii di fritti e sfrigolar di condimenti. Lame di coltelli già avevano iniziato quell’opera che cugini minori (e di solito meno affilati) avrebbero portato a termine di lì a poche ore. “Siamo (sof)fritti!”, pensavano aglio, olio e peperoncino. Le prime vittime del combattimento. Le cronache non riportano cos’accadde quella sera. Lady Moka non dichiarò nulla innanzi alle ruvide domande della spugna gialla e verde, che chiedeva ragione di tanto scempio. La grande caffettiera si sciacquava indolentemente sotto il getto dell’acqua. Il detersivo per piatti la scrutò disgustato. Era come cavar sangue da una rapa. Da quella sporcacciona non avrebbero saputo niente. La scena era terribile. Cadaveri di bottiglie erano riversi sulla tavola, esangui. Macchie rosse sanguinavano sulla tovaglia una volta candida, coperta ora dai resti della cena e dalla testa di un paio di commensali addormentati. Lo zucchero s’incrostava nelle ferite dei fondi di caffè. Lo sporco più sporco si rapprendeva in padelle e teglie. Solo una parte dei piatti era stata depositata nell’infermeria della lavastoviglie. Il resto giaceva mestamente accatastato nel lavello. Non era rimasto più niente da mangiare, solo avanzi, bucce di mandarino e gusci di frutta secca. Era sopravvissuta una fetta di torta che sbudinava disperata sul vassoio. Spugna e detersivo iniziarono il pietoso rito del lavacro. Lady Moka sorrideva come una Monnalisa sotto il pomolo di bachelite. Anche questa volta non aveva fatto prigionieri. Pochi rinunciavano al piacere della sua bevanda. Ma poi crollavano, sfiniti sotto i colpi dell’ammazza caffè. “Un’altra battaglia vinta”, penso’ Lady Moka rientrando nel suo stipetto.
A.MARTI [marlock@libero.it]
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