Suono il campanello. La porta si apre. “Albi!” Mi si butta al collo. La guardo: M. indossa soltanto un perizoma poco più spesso di un crine. “Che bello vederti – dice – finalmente! Come stai?” E’ un mese e mezzo che non ci vediamo perché deve fare ’sto cazzo di esame. “Basta chiacchiere”, e la afferro sottobraccio come fosse un cuscino. “Lasciami, lasciami!” Colle gambette scalcia l’aria, con le mani invece mi cinge la vita, e attacca a baciarmi nella zona dell’ombelico. La sbatto sul letto e faccio per sbottonarmi i pantaloni. Mi arresto. Corrugo la fronte in un’espressione pensosa. E adesso? Infilo una mano in tasca ed estraggo un foglietto tutto spiegazzato. M., prona davanti a me, si volge a guardarmi perplessa. “No, così non capisco” e lo giro sottosopra. “Dunque, qui dice: ‘introdurre la protuberanza A nella cavità B’”. Infilo una mano nelle mutande ed estraggo l’uccello. “Questa dovrebbe essere la protuberanza A”. Afferro il perizoma di M. e lo strappo con uno strattone. Lo getto sul pavimento. Mi avvicino aggrottando le sopracciglia, come un numismatico davanti a una moneta rara. “E questa dovrebbe essere la cavità B…” commento, stuzzicandola con un dito. Mi libero dei pantaloni e m’inginocchio dietro di lei. “Ahia! – esclama – quella non è la cavità B. Quella è la C!” Faccio finta di niente e comincio a stantuffare ignorando le sue proteste. Dopotutto è soltanto colpa sua se ho finito per scordarmi come si fa.
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