Il viaggio sarebbe stato lungo. Più lungo del previsto. Lo sciopero dei voli mi aveva colto impreparato, obbligandomi a prendere, in piena notte, il primo treno per Londra. Colpa della mia consueta alienazione dal mondo reale, del mio rifiuto dei meccanismi della civile società con i suoi mezzi d’informazione che snobbavo da anni e suoi scioperi a me incomprensibili. Tutta questa ragnatela di paradossi, mi costringeva ora a molte ore di ferrovia, con l’incubo claustrofobico dell’Eurotunnel da attraversare, per raggiungere a Londra i miei afflitti colleghi “esperti in tassidermia”, in uno dei nostri rari, noiosissimi incontri a livello internazionale. Giurai che mi sarei ubriacato la prima sera, per risollevarmi subito il morale, mentre mi trascinavo dietro il pesantissimo trolley che conteneva “Jack”. Non si trattava di whisky, quello l’avrebbero fornito gli Inglesi; Jack era la mia ultima fatica: un magnifico esemplare di pitone bianco. Non era stato facile far entrare il serpente nella valigia, anche perché si trattava di un esemplare bello grosso; per cui spinsi il mio bagaglio nello scompartimento segnato sul biglietto, con fare circospetto, non volendo rischiare in alcun modo di rovesciare il prezioso contenuto, scatenando un cataclisma fra i passeggeri. Quel serpente mi era costato molta fatica, notti insonni e anni di studio per mettere appunto il mio personale, innovativo metodo di imbalsamazione. Andavo a Londra per ottenere il mio trionfo; avrei lasciato a bocca aperta gli esperti di mezzo mondo. Quel serpente imbalsamato era più vivo di quand’ era vivo.
Preso com’ero da questi pensieri, mi accorsi solo allora che lo scompartimento era già occupato in tutti i suoi posti. Ricontrollai il biglietto: 1^ classe – carrozza A – Posto nr. 2, il qual posto era occupato da un ometto pallido dal viso smunto, che sonnecchiava come gli altri presenti. Mi risultò difficile reclamare il mio diritto, creando scompiglio e svegliando tutti. Ho sempre detestato scontri e discussioni, anche per questo faccio il lavoro che faccio. Gli animali morti non sono aggressivi e non rubano il posto. Decisi di sedermi sul pavimento, accanto alla valigia di Jack. In fondo me l’ero voluta, con la mia ostinata misantropia e con la mia avarizia che mi aveva fatto scegliere una poltrona, anziché il viaggio in cuccetta. Stavo quasi per assopirmi, quando l’abusivo occupante del mio posto si destò dal suo sonno, rivolgendomi uno sguardo vispo e brillante, in pieno contrasto con il suo aspetto logoro e stanco. Cercò subito di giustificarsi, bofonchiando a gesti e mezze parole che sapeva di trovarsi in un posto sbagliato, mentre indicava ripetutamente la poltrona di fronte alla sua. Solo in quel momento mi accorsi che la poltrona incriminata accoglieva un grazioso esemplare di femmina dormiente.
Mi chiesi come avevo potuto ignorare quel paio di gambe, concentrando la mia attenzione su quel sacchetto avvizzito di pelle gialla che occupava il mio posto di prima classe, pagato profumatamente. Deformazione professionale la mia, che considero sempre più i morti che i vivi. Non che l’omino vizzo fosse morto, ma la ragazza del sedile fronte era decisamente più viva. Vestita, in un ritaglio di seta rossa, difficilmente classificabile nella categoria degli abiti, si offriva languida e abbandonata agli occhi di tutti. L’omino avvizzito mi fece capire che quella ragazza gli aveva rubato il posto. Sorrisi e con lo stesso linguaggio dei gesti, spiegai che ero seduto per terra, perché quel posto era mio. L’ometto arrossì vistosamente, scattando in piedi, come se all’improvviso, il sedile stesse andando a fuoco sotto di lui.
Tentai di tranquillizzarlo, nel nostro assurdo discorso fra muti, ma troppo tardi; l’ometto scattò dal suo posto, come se qualcuno avesse tolto all’improvviso il coperchio ad uno di quei pupazzetti a molla contenuti in una scatola. Inciampò nelle lunghe gambe di cui sopra, che l’avvenente bella addormentata teneva in diagonale, rannicchiata nella poltrona, finendo lungo disteso nel circoscritto spazio della carrozza, andando a sbattere direttamente contro il mio prezioso trolley. Come in un folle domino, anche Jack esplose fuori dalla valigia, in tutta la sua - ormai incorruttibile - bellezza, atterrando direttamente sulle gambe di un altro tipo di bellezza.
Misteriosamente, la ragazza non si mosse. Doveva avere un sonno bello pesante, per sopportare qualche chilo di ofide sulle gambe. Anche gli altri passeggeri, inspiegabilmente non si destarono, nonostante tutto quel trambusto. Surreale: mi trovavo in un punto imprecisato fra la Francia e l’Inghilterra, di notte, steso nella carrozza di un treno, accanto ad un ometto smunto e imbranato, che aveva appena spedito il mio lavoro degli ultimi cinque anni fra le cosce di una sconosciuta, rubandomi il posto e fracassandomi la valigia; l’urgenza di un doppio whisky si fece pressante.
L’omino a molla, non contento di quel capolavoro, volle completare l’opera. Rimbalzò in piedi, sospinto da quella forza elastica che sembrava dominarlo e si avventò con un altro scatto verso la ragazza, sorprendendomi di nuovo. Il film muto continuava: un buon regista avrebbe ristretto il campo inquadrando le mani dell’omuncolo sul mio pitone e poi sugli occhi della ragazza che si spalancarono come anemoni di mare, agitandosi convulsamente, iniettati di terrore di fronte a quello sconosciuto che armeggiava con un serpente sulle sue gambe. Il sonoro fece il suo ingresso nel film: un grido paragonabile solo a quello della vittima di Norman Bates in Psyco, graficamente simile al celeberrimo quadro di Edvard Munch, frantumo’ il silenzio della carrozza.
Jack ebbe il successo che meritava: strilli, scene di panico, svenimenti, intervento delle forze dell’ordine.Il mio sistema funzionava a meraviglia, mi ci volle il resto della notte, un paio di telefonate e tutti i documenti che avevo con me per dimostrare che Jack era un serpente morto e imbalsamato e io la vittima di un furto di sedile, nonché un ottimo impagliatore di animali. La bella addormentata si rivelò essere una famosa attrice, ancora in abiti di scena, partita in fretta e furia da Parigi dopo l’ultimo spettacolo, perché attesa a Londra per la sera successiva; tanto stanca da essersi infilata nella prima carrozza, sprofondando subito in un sonno profondo. E l’omino a molla, chi era costui? La polizia ferroviaria chiese i documenti anche a lui, che estrasse dalla tasca un passaporto logoro quanto il resto. Quell’uomo stava scappando, lo raccontò candidamente, scappando da una vita che non gli era mai appartenuta e che non sopportava più, da una famiglia che non lo aveva mai amato, e da un lavoro che detestava. Era stato fermo troppo tempo. Chiuso in una scatola, con quella molla dentro, in perenne pressione. Ora voleva andare; dove non importava, l’importante era muoversi, respirare, lasciare che quell’energia compressa si liberasse e lo spingesse lontano. Poi si sarebbe fermato di nuovo, dove non importava. In quel luogo sarebbe stato felice. Avrebbe conservato quel momento per sempre. La polizia ferroviaria ci lasciò andare, tutto era chiarito e Londra era vicina.
La bella attrice ci salutò cordialmente, recuperando lo scompartimento giusto. Jack tornò nel trolley aggiustato con il nastro adesivo e io mi trovai seduto al mio posto, di fronte all’omino a molla. Chiacchierammo ancora, della vita, del tempo, di Londra, di serpenti e di gambe. Alla fine del viaggio, facendosi di nuovo rosso in viso, quell’uomo mi chiese il biglietto da visita.
Glielo porsi, lusingato da quella richiesta. Imbarazzato, schiarendosi la voce mi disse: “Mi piacerebbe davvero chiederle, quando sarà il momento, i suoi servigi”. All’inizio non compresi bene, ma lui continuò “..come ho detto prima, un giorno finalmente mi fermerò e sarò felice e vorrei conservare quell’attimo per sempre. La manderò a chiamare, quando succederà, sempre che non le dispiaccia imbalsamare un uomo. Tanto, non sarà difficile, glielo garantisco: sono già stato imbalsamato per tanto tempo”. Era mattina quando arrivammo a Londra, scesi dal treno e mi infilai nel primo locale aperto, chiedendo un “ Jack” (Daniels), liscio, senza ghiaccio”.
A.MARTI [marlock@libero.it]
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