L’appuntamento è fissato al porto per le 17.30; la soffiata è buona, l’informatore affidabile.
Mi addentro fra le banchine in un tardo pomeriggio di febbraio, diretto al Molo della Calata, dove sono ammassati i container in arrivo. Il sole si è già sciolto a mare, come un’aspirina in un bicchier d’acqua. Facchini e carrellisti hanno terminato l’ultimo turno e non resta che il buio a riempire gli spazi e un vento gelido che s’infila fra le scapole. Buio e freddo sono gratis, diceva Dickens. Sottoscrivo.
A vederli fanno davvero impressione i container. Grattacieli di mattoni metallici, prismi colorati lunghi quaranta piedi: camion-nave-camion e ritorno. Osservo ammirato questi giganteschi cubi di Rubik, ammassati sotto i mastodontici carri ponte. Quasi dimentico perché sono qui. Recupero dalla tasca del giaccone le coordinate che il Pianista mi ha dettato al cellulare. «Settore H - 13° Quadrante». Mi ripeto «SH-13Q / SH-13Q» camminando fra i corridoi di container.Raggiungo il Settore H che è già buio pesto. E sono solo al quadrante 3. Sono in ritardo. Accelero il passo. 6° quadrante.
Mi chiedo se il Pianista ci sarà, forse se n’è già andato. Non è tipo con cui discutere, quello. Si fa chiamare “il Pianista” perché gli piace premere sui tasti, suonare la musica. Controlla tutti i traffici illeciti del porto.
8° Quadrante. Questi cassoni sono infiniti: allungo il passo, sono in affanno, ho il fiatone. Maledico il pacchetto di Marlboro in tasca e i molti pacchetti nei polmoni. Il cuore mi pompa nel petto come un vecchio motore a gasolio.
9° Quadrante. Non posso perdermi questo lotto. È roba buona, dicono, di prima scelta.
10° Quadrante. Mi fermo un istante per prendere fiato. Mi appoggio contro la lamiera di un container con scritte turche, o almeno credo che sia turco. Riprendo la corsa, sento il sudore imperlarmi la fronte e colarmi fra le scapole e sotto le ascelle. Sbuffo, ansimo come uno di quei vecchi cani da caccia che ormai non tengono più il passo.
Supero l’11° ed eccomi al 12° quadrante: manca poco; solo un centinaio di metri. Vedo il cartello del 13° Quadrante – Settore H. Ci sono! Colpito e affondato nella mia immaginaria battaglia navale.
Il 13° Quadrante del Settore H è uguale a tutti gli altri, un punto in cui s’intersecano un’ascissa e un’ordinata di container. Intorno alla X e alla Y nessuno, il nulla, proprio come nei miei esercizi di matematica e trigonometria, in cui era l’incognita, l’unica cosa certa. Le 17.48. Sono deluso. Ho mancato l’appuntamento con il Pianista. Ho perso la roba. Tiro due calci a un container col solo risultato di far risuonare la lamiera come una campana crepata e insaccarmi l’alluce del piede destro. «Vuoi che arrivi la portuale?» sibila una voce poco distante, dove la X e la Y s’intersecano in un nuovo punto. È lui, il Pianista. Spunta dal buio come un gatto, uno di quei gatti grassi e pesanti che di solito sono rossicci. Che paragone idiota! Il Pianista “è” rosso; capelli fulvi e ricci, pelle incrostata di lentiggini, mani bianche, lattiginose. Si affianca, accendendosi una sigaretta, me ne offre una dal pacchetto. So che non dovrei, ma mi chino verso l’accendino.
«Allora, ce l’hai?» chiedo con fare disinvolto. «Ce l’ho» risponde senza esitazioni. «È roba buona?» replico. «Ottima!» risponde a labbra serrate, senza mollare la presa della sigaretta. «Guarda che non mi freghi. Ne voglio un campione subito e se si tratta di un tarocco cinese, non vedi un euro». Faccio il duro, non voglio sembrare un pivellino. «Rilassati, la merce è eccellente» dice tirando un’altra boccata «e sul prezzo non tratto». «Non saranno mica sintetici?!» incalzo «mica roba chimica?» «Ma per chi mi hai preso?! Sono tutti rubati, tutti pezzi unici!» ribatte lui. Allento la presa. Cerco di trattare, ma non c’è verso. La roba è carissima. Gli allungo una caparra, ma insisto per avere un campione. Non voglio essere fregato.
Sorride. Dice che si tratta di un ottimo affare, che non ne ha mai visti tanti tutti insieme. Non transigo. Ne voglio provare almeno uno. Mi fa cenno di seguirlo. Getta la cicca a terra, io finisco la mia. Superiamo il 13° Quadrante e risaliamo i settori fino alla A, ritornando sulle banchine. Il porto è un’immensa città fantasma. Le navi cargo beccheggiano sonnolenti e spente. Camminiamo fino al Bacino Interno, dove ci sono le officine di riparazione navale. Il Pianista si ferma. Ci infiliamo in uno dei grandi magazzini rugginosi.
Dentro è buio, ma riconosco gli arnesi dei maestri d’ascia. Deve trattarsi di un’officina dismessa da un bel po’. Il Pianista scompare nel buio e ritorna dopo poco con un mestolo nella mano destra e un secchio di plastica azzurra nella mano sinistra. Me lo porge. Lo sollevo fra le mani e sento che contiene del liquido, ma non riesco a vedere bene a causa dell’oscurità. Lo metto in controluce verso il riverbero dei lampioni che filtra appena dai finestroni opachi del magazzino. Nella poca acqua sul fondo ne galleggia uno. Abbasso il secchio e cerco di afferrarlo. È scivoloso e mi sfugge parecchie volte. Faccio una conchetta con le mani, come quando si beve a una fonte, e dopo qualche tentativo riesco a catturarlo; non vedo bene, ma sono certo di averlo preso. Il Pianista mi osserva divertito. Esito. E se fosse avvelenato? Il Pianista intuisce e si porta il mestolo alla bocca. Anche lui ne ha uno. Lo osservo cambiare espressione, trasfigurarsi.
Il mio è ora accanto alle labbra, sulle labbra, nelle le labbra. Sento un tepore entrare in me con la consistenza umida di un’ostrica e poi irradiarsi ovunque, riscaldarmi la faccia, espandersi nel petto, accelerarmi il battito, scendere voluttuoso dallo stomaco al bassoventre. Torno in me; è stato come perdere i sensi e poi ritrovarli, moltiplicati. Il Pianista aveva ragione. È il miglior bacio che io abbia mai ricevuto. Peccato sia rubato.
N.d.R. - Questo racconto è tratto dalla silloge "Storie di pasta s'foglia" di Anna Martinenghi, ed. Il Filo (2010)
A.MARTI [marlock@libero.it]
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