Racconto pubblicato su "L'Informazione di Parma" del 6 luglio 2008 (la foto è dell'Autore)
Da qualche giorno il mare aveva un aspetto diverso. L’avevo notato un mattino, nelle prime ore, passeggiando sulla battigia con il sonno sul muso e la voglia di respirare a pieni polmoni. Al nostro arrivo aveva mugghiato bilioso, incapace di seguire il nostro entusiasmo di nuovi vacanzieri, deprimendo se mai il desiderio di un bagno o di una nuotata al largo. Lanciava verso la riva cavalloni dispettosi, tronchi di pino giunti da chissà dove, ormai lisci e scuri, che prendevano la forma di vecchie mummie galleggianti e arti decomposti. Disseminava sulla riva curiosi vermi bianchi che si agitavano increduli e non di rado, per dissuadere i più coraggiosi, faceva trovare in studiati angoli del percorso cadaveri di meduse o di grossi pesci, e il vento che giungeva dalla pineta, d’accordo con esso, sussurrava: “andate via, andate via”. Non ha mai fatto così, dicevano quelli del posto, con l’aria di chi la sa lunga. E invece, quando già colmi di rabbia pensavamo di fare i bagagli e rincorrere luoghi più ameni, eccolo accostarsi ai nostri piedi, bagnandoci le punte come la lingua di un cagnolino, con l’acquoso pelo ben pettinato. Dovevano averlo persuaso le nostre marce mattutine, prive di ostilità, le parole basse, dosate come le giornate, all’oscuro di tutto, delle notizie dei giornali, del pazzo mondo che roboava intorno. Tiravamo le somme del passato, ci chiedevamo cosa sarebbe stato di noi, di me, in particolare, non più giovane, ma ancora frastornato come un bambino alle prime settimane dentro quell’accozzaglia di suoni e lusinghe che si chiama vita. Avevo appena perso il lavoro, come capitava a tanti nella mia città, che stava morendo piano e tuttavia come un cyborg conservava un cuore pulsante di banche e boutiques che riciclavano il denaro sporco, di agricoltori legati a un passato estinto, chiusi nel loro mondo di benefici e opulenza, detassati e piangenti, di industriali che avevano venduto l’anima al diavolo o alle multinazionali, stanchi, vuoti, ebbri di idee insulse e curiose, alla fine risibili. “Rimanete con me”, diceva ora il mare. E abbandonava sulla riva sassi marmorei a forma di cuore, dissetava incredibili fiori sulla sabbia, che parevano lì da sempre a vigilare fantomatiche tombe di dolore, ci mostrava i suoi doni più preziosi, le isole nell’orizzonte sgombro, la brezza gentile, i campi elisi nel suo liquido ventre. “Non torneremo qui un’altra volta” mi dicevi e a me dispiaceva, e lo stesso al mare, perché c’erano più uomini che cose, più cielo che case, più destino che svago, se lo svago ha la forma della vita, e il destino del senso della vita, o della sua mancanza. E le stesse cicale sui pini, che all’unisono cantavano e poi per un invisibile ordine si zittivano per lasciare il posto a un coro più lontano, parevano d’accordo: andate via, andate via. Ma poi le trovavo riverse sul sentiero, le ali abbandonate, gli addomi sventrati dagli eserciti di formiche, e capivo che andarmene sarebbe stato inutile. Il mare mi voleva bene, a volte mi portava le nuvole - a me che odio il sole - per trattenermi ancora un poco sulla spiaggia, e poi perché aveva capito che con le nuvole in un certo senso parlavo, mi cibavo di quella panna che non faceva male e che ai tempi dell’adolescenza mi passava sul capo trasmettendomi qualcosa che non comprendevo e che mi lasciava vuoto dentro. Invece le nuvole, prima che cariche d’acqua, sono cariche di sospiri e di pensieri nascosti fra i colori, sono la nostra mente stemperata nel cielo, sono immagini di noi, passate e future, che ci camminano davanti agli occhi quando ci specchiamo nell’atmosfera, come un film che deve ancora finire. Ecco, mi diceva il mare, guarda il film della tua vita. Ti piace il mio regalo? E io fin troppo bene vedevo le stesse cose, il mio tempo che si consumava, ed io stupido mi deliziavo di quello andato, nessun cenno di discontinuità con l’avvenire, sempre lo stolto piacere dell’oblio, come quello di un corpo morto che non appartiene più a nulla, nemmeno al passato, perché non ricorda e non ricordando non c’è nemmeno stato. Andiamo via, dicevi di nuovo, ma questa volta eri sola. Per te una nuvola era un’ombra mobile sull’asfalto, per te il mare era quel nastro azzurro fra la rena e il cielo, ed era bello o brutto e basta, e non a causa sua. Le cicale erano un esercito schiamazzante, a tratti insopportabile, le vie quasi deserte, la sera, anticamere di una piramide egizia, e le insegne luminose lumini cimiteriali, o fuochi fatui. Andiamo sull’Argentario, andiamo a Porto Ercole, andiamo, andiamo! Come se dovessimo raggiungere una terra promessa per noi e i nostri figli, e dopo chilometri di strada, dopo i tornanti, dopo le pinete, le schiere di ulivi, le colline brulle, dopo una marcia nella macchia odorosa di rosmarino selvatico, nient’altro che rocce, gabbiani addomesticati, e ancora tu, mare innamorato, che senza la minima fatica mi avevi seguito e mi guardavi con benevolenza. E allora mi chiesi se la mia strada non fosse davvero sopra il tuo dorso, se non fosse il tuo mondo, privo di cicale, di masnadieri, di nere stradine senza uscita squassate dalle radici dei pini, quello da costruire con fede, ma alla fine già perfetto così, liquido, monocorde, privo delle misure, delle quantità, delle ombre definite, delle altezze incostanti. Tu cristallino e profondo come la lontananza dei miei pensieri, io nebuloso fino all’apatia, ci guardavamo in un modo che solo amanti di due mondi diversi sanno fare: con la prepotenza del sentimento e la nostalgia che si accompagna a un amore impossibile. E giungevi a lambirmi i piedi, e ti ritiravi come se te ne volessi andare una volta per tutte, e tornavi con maggior vigore, e in certi momenti mi venne da pensare che sarei rimasto lì per sempre, seduto e immobile, insensibile al variare delle stagioni.
ROBIROBI [cpkpst@tin.it]
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