Vado un po’ forte e l’insegna del ventiquattrore la vedo all’ultimo. Tiro un frenone e accosto cigolando i copertoni. Scendo. L'afa mi aggredisce simile a una centuria di accappatoi bagnati. Davanti a me, a cavallo di un mucchio di tubi con scritto sopra Graziella, un tizio di mezz’età in canottiera e ciabatte, le guance rubizze, la pinguedine di tutt’una vita di dedizione al lambrusco, sulla testa una manciata di ricci color caccadipiccione aggrovigliati come una salsola. Una di quelle persone che commentano tutto quello che fanno, presente? Scende dalla bicicletta, poggia una mano sui lombi: “L’a m’lèsa stèr brisa c’la schina d’merda, vacamadöna”. Ha in mano un triangolino di carta unto e stropicciato come una pagina di giornale con dentro un culatello. Sono cinque euro. “A m’i a dé al p’chèr ierdlà, vacamadöna”. Li infila nella fessura. Pochi istanti e la macchinetta, naturalmente, li sputa. “Co’ gh’ani che vàni miga bén, vacamadöna” e sferra un calcione alla macchinetta. “Adésa t’vèd che t’ia ciàp, vacamadöna”. Infila nuovamente la banconota. Stesso risultato. “Vacamadöna”. Infila la mano in tasca per cercare degli spiccioli. “E guardi sa g’ho dal monédi, vacamadöna”. Li trova. “I’ én chi, vacamadöna”. Li infila nella macchinetta, uno per uno. “Von du tri e quater, vacamadöna”. Schiaccia maldestramente il bottone delle MS morbide. “Chi bagai chi son pù picén dal me dii, vacamadöna”. Si allunga verso la fessura per afferrare il pacchetto ma il salvagente di adipe fa da spessore. “E fèrla pù in élta, vacamadöna”. Inspira profondamente. Scende dalla bici e si china nuovamente. “Pòvra pòvra la me schina, vacamadöna”. Infila la mano nella fessura, ma non trova il pacchetto. “Mo’ ’ndo’l s’é frucè, vacamadöna”. Finalmente lo trova. “A l’ho catè, vacamadöna”. Sempre dettagliando, si risiede sulla bicicletta, apre il pacchetto, getta in terra la stagnola, afferra una sigaretta coi denti, gli cade, scende dalla bici a raccattarla, la infila in bocca arrovescio, la gira, infila la mano in tasca alla ricerca dell’accendino. Si arresta. Si guarda intorno spaesato. Ci siamo soltanto io, un rave di zanzare attorno al lampione e qualche chilometro cubo di umidità. “Gh’et da pièr?”, chiede. “T’al po’ dir, vacamadöna”, e gli allungo l’accendino. Sorride a labbra strette per non far cadere la sigaretta. La accende e mi restituisce l’accendino. Soffia fuori una densa nuvola di fumo. Mi appoggia una pacca sulla spalla. “Adésa stàg mèi”, dice. Sale in sella e faticosamente riparte. Qualche metro e si gira verso di me. “CHE CHÈLD, VACAMADÖNA”, sbraita, e mi fa l’occhiolino.
UFJ [ufj@tapirulan.it]
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