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KAMALAFILM
  01.11.2006 | 19:22
"Babel": la terza fatica di Alejandro Inarritu
 
 

Dai, ci riprovo.
Dopo l’insuccesso del mio primo tentativo di recensire il film visto qualche sera fa, eccomi nuovamente qui, sperando che questa sia la volta buona.
Oltre a the fountain di Aronofsky, the departed di Scorsese e Maria Antonietta della Coppola, tra i film per me più attesi della stagione, c’era sicuramente Babel del messicano Alejandro Inarritu.
Questo regista, sempre coadiuvato ai testi dall’ottimo Guglielmo Arriaga (sua la sceneggiatura de le tre sepolture, da me visionato per caso solo pochi giorni prima), mi aveva già molto colpito nei due precedenti film: amores perros e 21 grammi, il peso dell’anima, quindi per me era assolutamente da non perdere l’appuntamento con la sua terza fatica, che gli ha consentito, tra l’altro, di vincere la palma d’oro per la regia al festival di Cannes 2006.

Veniamo alla trama.
Una turista americana (Cate Blanchett) viene ferita gravemente durante una vacanza col marito (Brad Pitt) in Marocco. Nel frattempo, a San Diego, la tata messicana che tiene i figli della suddetta coppia, decide di portarli con sé al matrimonio del figlio in Messico.
Mentre ci si domanda a chi appartenga l’arma che ha ferito la turista americana, in Giappone una ragazza sordomuta che ha visto suicidarsi la madre, vive un rapporto difficile col padre.

Già dal titolo, Babel, si evince che il film si fonda su una babele di rapporti, che l’incapacità di comunicare e la diversità culturale non possono che rendere fragile e complicata allo stesso tempo. Non mi soffermo però più di tanto né sulla storia, una buona storia, capace di mantenere un elevato livello di attenzione e tensione nello spettatore, né sugli attori (pazzesco vedere Brad Pitt con rughe profonde come canyon!), che bene simulano il proprio disagio e malessere interiore, ma voglio focalizzare la mia attenzione proprio sul lavoro del regista.
Come si evince da questa breve sintesi della storia e ricordando le trame dei film precedenti, è lampante che caratteristica inconfondibile di Inarritu è quella di intrecciare tra loro le vicende umane di personaggi diversi, apparentemente slegate le une dalle altre, ma che nello sviluppo della storia diventano tangenti in più punti.
Non importa se si passa dal Marocco, al Messico o al Giappone, perché la dimensione che conta non è quella spaziale, ma quella umana dei personaggi, così lontani tra loro, eppure così vicini nella loro incapacità di comunicare, di farsi capire, di aprirsi al prossimo e di amare.
Altro marchio di fabbrica del regista messicano è il montaggio, utilizzato spesso per ricreare un ordine narrativo degli eventi differente da quello cronologico, ma stavolta in misura meno massiccia che in 21 grammi, dove esso era puro esercizio di stile….ma che stile!
Qui il montaggio, invece, è meno invadente che in 21 grammi e il tocco del regista sembra volutamente essere più distaccato, come volesse non interferire più di tanto con il dipanarsi della trama.
E poi le immagini, quasi sempre sgranate e ruvide, ben conferiscono la durezza di situazioni e momenti disturbanti, e l’uso frequente dei primi piani trasmette l’angoscia dei protagonisti negli occhi dello spettatore.

Per concludere, il film ha lasciato sicuramente il segno, lasciandomi soddisfatto all’uscita dalla sala e confermando l’ottima opinione che ho di Inarritu.

Michele (Pigi)

Autore: kamalafilm

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