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  28.01.2009 | 10:06
una specie di unplugged
 
 

questa recensione, già online su tapirelax da qualche tempo, è dedicata a barbara, fida compagna di concerti per - santocielo - sono ormai diciassette anni.
mi domando: ma si potrà dedicare a qualcuno una recensione? avrà senso?
bah, io lo faccio lo stesso e...
e dato che ci siamo ti auguro pure, da qui, un felice trenta***esimo compleanno.

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Jean-Michel Jarre 6/11/2008 – Milano, Teatro degli Arcimboldi

Perlomeno l’altra volta c’erano raggi laser, luci stroboscopiche, ologrammi e faretti colorati di ogni genere e specie. Rumori, borborigmi, campionamenti, fuochi d’artificio. Fiamme che uscivano dalle tastiere. Perlomeno c’era stato del casino sul palco. Perlomeno per due orette buone, il Nostro, aveva ripercorso le tappe di una carriera lunga e a modo suo luminosa. Perlomeno il biglietto era costato soltanto trentamila lire, effettivamente tante, allora, per le mie tasche smunte, ma tutto sommato oneste.
Perlomeno.

Alle nove e cinque minuti, mentre prendo posto nell’ultimo seggiolino dell’ultima fila dell’Arcimboldi, su in piccionaia, le luci si spengono e Jean-Michel Jarre fa il suo trionfale ingresso sul palco. Capelli lunghi, tinti, un po’ unti – o sarà il riflessante? – cappotto nero e una forma invero invidiabile per i suoi sessant’anni.
Prende un microfono.
Uh? Ma che ci fa Jarre con un microfono in mano?
Che ci fa? Ecco: chiacchiera.
Dice che questa sarà una serata speciale, che farà un concerto speciale per un posto davvero speciale. Guardate, e fa un ampio gesto col braccio, guardate: nessun computer sul palco, niente effettacci luminosi. Un concerto, diciamo, ‘intimista’. A modo suo, una specie di unplugged. Questa sera JMJ suonerà soltanto strumenti originali, esattamente gli stessi coi quali incise Oxygène qualcosa come trenta e passa anni addietro.
Un fragore di applausi.
«Questi strumenti sono delicati e bizzosi come vecchie signore. Devo fare attenzione con loro – sorride – dovrò sfiorarli in punta di dita».
Attorno a lui, in cerchio, una decina di sintetizzatori di ogni tipo. Begli attrezzi, non c’è che dire. Ce ne sono almeno un paio che sembrano trafugati dal set di Spazio: 1999. JMJ li accende uno dopo l’altro e li prova con grande prosopopea, ottenendo applausi a ogni strumento. Poi esegue per intero l’album Oxygène. Poi esegue due estratti da Oxygène 7-13 – il dignitoso sequel uscito nel 1997. Poi se ne va. Un’ora e cinque minuti, compreso il solito andirivieni pre-bis. Quarantacinque Euro. Settanta centesimi al minuto. Grosso modo, il prezzo di una telefonata intercontinentale. «Halo? Oui? Je parle avec Jean-Michel Jarre? Oui? Bien. VA-FAN-CU’» . Clic.

Ché per tutto il tempo, quello, non ha fatto altro che ruotare in tondo come un faro per navi, plin-plin-plin, schiacciando un tasto qua e uno là, annuendo, alzando i pugni e spargendo forfora intorno.
Sfiorando in punta di dita le sue vecchie bizzose elettrobaldracche.
Cielo, a vederlo sembra proprio che stia facendo tutto lui.
Poi, a un certo punto, abbandona la postazione e si piazza davanti al theremin. Ah, che figata il theremin. Io l’ho suonato, sapete? L’ho suonato una sera che ero al Calamita per vedere i Dwomo. Apriva il concerto la band di un mio amico. Lui era il cantante e tastierista. Alla fine dell’esibizione quello fa al tecnico: “Spegni tutto”. Ma no! Balzo sul palco e urlo verso il mixer: “Non t’azzardare!”, e prima che qualcuno possa dire qualcosa o fare alcunché io sono lì davanti, sul palco, che mi sbraccio davanti al theremin di Rivara come assalito da uno sciame di api. Ueeeeouw mmweoouww wowowow wooooauh. Che figata, il theremin. Dovreste provare.
Beh, insomma, JMJ ha abbandonato le elettrobaldracche al loro elettrodestino è se ne sta lì davanti a fare il farfallone col theremin. Moriranno di dolore, penso, le e-baldracche, senza il loro stronz-ex-machina. E invece no. I suoni sintetici vanno avanti esattamente come prima. E allora mi viene da domandarmi: che cosa faceva, di preciso, JMJ, fino a pochi istanti fa?
Ecco che cosa faceva: non faceva niente. Perché, signori, il concerto è unplugged per davvero. I fili sono tutti staccati, le vecchie tastiere sono spente e anche se le carcasse giacciono indecorosamente ammonticchiate su un palco, le loro anime sonore fluttuano da qualche parte all’interno di un paradisiaco cosmo elettromagnetico. JMJ schiaccia salme di tasti e muove cadaveri di rotelle, ma i suoni sono tutti generati dai tre figuri supercomputerizzati e circumtastierizzati ammassati al buio in fondo al palco.
Sono incazzatissimo.
Certo, da un concerto di musica elettronica non potevo aspettarmi sangue&sudore, strumenti sfasciati e reggiseni sul palco. No. Per questo ci sono i Mötley crue. Diciamo che mi sarei forse accontentato di sentire qualche suono, qualcuno soltanto, che fosse generato sul palco per davvero. Chiedevo troppo?
Sapete, alle volte penso che con l’età sto diventando, mio malgrado, un fottuto vecchio perbenista del cazzo.

Setlist
Oxygène 1
Oxygène 2
Oxygène 3
Oxygène 4
Oxygène 5
Oxygène 6
Oxygène 7
Oxygène 13 (bis)

Autore: ufj | Commenti 1 | Scrivi un commento

  22.01.2009 | 13:06
autori vari - l'orrore dietro l'angolo
 
 

Ero al telefono con Manuela. Le stavo dicendo che io ho una fantasia talmente sviluppata che sarei capace di tirar fuori un racconto partendo da qualunque spunto.
“Dimmi una parola, una qualsiasi e io ti scriverò una storia che comincia con quella parola”.
Rise, poi disse: “OK, vediamo… la parola è ‘nulla’”.
La mia era una smargiassata, naturalmente: non sarei mai riuscito a tirare fuori storie da parole come ‘adiabatico’, ‘gallina’ o ‘eucarestia’. Ma ‘nulla’ mi stimolò. Scrissi veramente quella storia e la intitolai, indovinate un po’? Bravi: ‘Nulla’.

C’era una piccola casa editrice chiamata ‘Magnetica’ che indiceva un concorso per scrittori esordienti. Il tema del concorso era l’horror di genere. Talmente di genere che era addirittura necessario specificare l’elemento orrorifico nel modulo di iscrizione. Il concorso era gratuito e il premio consisteva nella pubblicazione del racconto all’interno di un’antologia.
Decisi di partecipare e lo feci a modo mio: inviai ‘Nulla’ e specificai che l’elemento orririfico era… beh…
Il racconto piacque e fu incluso nell’antologia. Per essere precisi apriva l’antologia. Ne fui parecchio lusingato.
Ricevetti una copia omaggio del libro. S’intitolava ‘L’orrore dietro l’angolo’.
Per essere una produzione indipendente, il libro mi parve di buona qualità. L’unica pecca, a mio modo di vedere, consisteva nell’editing affrettato. Al punto che la mia storia, che aveva sicuramente ampi margini di miglioramento, era stata messa dentro così com’era, senza neanche cambiare una virgola.
Di lì a poco persi entusiasmo per le antologie dedicate agli scrittori emergenti e mi dimenticai in fretta della faccenda.

A distanza di quasi due anni mi sono chiesto che ne è stato di quel libro. Ho digitato il titolo dentro ‘Google ecologico’ (www.blackr.it – provatelo) e ho guardato che succedeva.
Ho scoperto innanzitutto che la ‘Magnetica’ ha chiuso i battenti circa sei mesi fa e che il libro non è più in vendita neanche su IBS. Insomma, è introvabile.
Poi ho trovato alcune recensioni nei siti specializzati: Scheletri.com (il quale, se non ricordo male aveva patrocinato la pubblicazione a suo tempo), Hyperreview.com, Horror.it (che contiene anche una accesa polemica portata avanti da un lettore, il quale sostiene che il libro faccia cagare punto e basta), Horrormagazine.it, La tela nera e infine Progetto Babele.
C'è chi, al pari mio, sottolinea qualche carenza nella fase di editing, ma in linea di massima i commenti sono positivi.
Qualcuno recensisce l’antologia nel suo complesso, soffermandosi più sugli aspetti editoriali che artistici, qualcun altro invece dice la sua sui singoli racconti. Nessuno menziona il mio tra i suoi preferiti, anzi, soltanto in un caso mi dedicano un commentino. Si tratta di Progetto Babele, che scrive di me: “Differente per stile (lirico e spezzato) e ambientazione è invece ‘Nulla’ di Alberto Calorosi. Sul quale non mi dilungo perchè è difficile parlare di questo racconto breve ed intenso, che mi ha ricordato il recente Sixth Sense ed il cinema di Alejandro Amenabar, senza rovinare l'effetto sorpresa”.

Rileggendolo ora, ‘Nulla’ non mi soddisfa per niente. E’ scritto male: prolisso, ridondante, pieno di incertezze stilistiche. Credo che oggi saprei fare meglio. Ma trovo che l’idea di fondo sia potente e meriti un’altra possibilità. Sapete che faccio? Lo riscrivo da capo. Sì. Appena ho un minuto di respiro lo faccio a pezzetti e lo riscrivo da capo.
Nulla.
Mmmh.
Però, ripensandoci… anche ‘adiabatico’ e fico.
Sì, sì.
Davvero fico.

Autore: ufj | Commenti 0 | Scrivi un commento

  20.01.2009 | 12:35
daniel pennac – la fata carabina
 
 

Se faccio mente locale, mi viene da pensare che forse il secondo è un giallo un po’ più strutturato del primo della serie, dove l’inghippo altro non era che un mero pretesto per permettere all’azione di turbinare attorno al protagonista. E se questo indulgeva nel grottesco da un punto di vista linguistico, al punto che talvolta era persino difficile capire cosa stesse accadendo, quello, al contrario, ha la tendenza a eccedere nelle situazioni. Un linguaggio quindi, quello del secondo romanzo, più misurato, più aderente alla situazione. Più maturo, se vogliamo.
Ah, scusate. Sto tentando di confrontare ‘Il paradiso degli orchi’ e ‘La fata Carabina’, rispettivamente primo e secondo romanzo della strafamosa saga di Benjamin Malaussène, scritta da Daniel Pennac.
I romanzi vanno giù come pinte di Pils nella burella dell’inferno, uno in treno mentre attendevo di raggiungere il Conero per le ‘Cantine aperte’, l’altro a letto col piede per aria, mentre attendevo che venisse sera. Di Pennac non posso che apprezzare uno stile spumeggiante nonché una invidiabile capacità di confezionare un’ottima torta a partire da pochi consunti ingredienti. L’humour nerissimo, unitamente a certi momenti davvero irresistibili ne fanno una di quelle letture dalle quali è davvero difficile staccare il naso prima di avere terminato.
Un’eccellente lettura da ombrellone, insomma.

Siamo a Belleville, sobborgo di Parigi. Fa un freddo cane ma l’atmosfera è molto calda per causa di una inspiegabile e ferocissima sequenza di delitti. Questo è l’inizio del primo esplosivo capitolo del romanzo.

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Era inverno a Belleville e c’erano cinque personaggi. Sei, contando la lastra di ghiaccio. Sette, anzi, con il cane che aveva accompagnato il Piccolo dal panettiere. Un cane epilettico, con la lingua che gli penzolava da un lato.
La lastra di ghiaccio somigliava a una cartina dell’Africa e copriva l’intera superficie dell’incrocio che la vecchia signora si accingeva ad attraversare. Sì, sulla lastra di ghiaccio c’era una donna, molto vecchia, malferma sulle gambe, che trascinava con millimetrica prudenza una pantofola davanti all’altra. Reggeva una sporta dai cui spuntava un porro d’occasione, portava un vecchio scialle sulle spalle e un apparecchio acustico nella piega dell’orecchio. Con il loro avanzare strisciante, le pantofole l’avevano condotta, diciamo, fino al centro del Sahara, sulla lastra a forma di Africa. Doveva ancora farsi tutto il sud, i paesi dell’apartheid e via dicendo. A meno che non tagliasse per l’Eritrea o la Somalia, ma nel canaletto di scolo il mar Rosso era terribilmente gelato. Queste considerazioni zampettavano sotto i capelli a spazzola del biondino dal loden verde che osservava la vecchia dal marciapiede e trovava, il biondino, di avere una gran fantasia, per l’occasione. D’un tratto, lo scialle della vecchia si piegò come l’ala di un pipistrello e tutto si immobilizzò. La donna era stata quasi sul punto di perdere l’equilibrio. Il biondino, deluso, bestemmiò fra i denti. Aveva sempre trovato divertente vedere qualcuno rompersi il cranio. Faceva parte del disordine della sua testa bionda. Peraltro impeccabile, vista da fuori, la testolina. Non un capello più alto dell’altro, sulla superficie ispida e folta del taglio a spazzola. Ma non gli piacevano tanto i vecchi. Li trovava vagamente sporchi. Li immaginava ‘da sotto’, se così si può dire. Stava dunque chiedendosi si la vecchia sarebbe ruzzolata oppure no sulla banchisa africana quando scorse altri due personaggi sul marciapiede di fronte, peraltro non senza rapporti con l’Africa: degli arabi. Due. Nordafricani, insomma, o maghrebini, dipende. Il biondino si domandava sempre come chiamarli per non passare per razzista. Con opinioni come le sue, era molto importante non passare per razzista. Lui era Frontalmente Nazionale e non lo nascondeva. Ma appunto per questo non voleva sentirsi dire che lo era perché era razzista. No, no. Come aveva imparato molto tempo fa in grammatica, non si trattava di un rapporto di causa, ma di conseguenza. Era Frontalmente Nazionale, il biondino, cosicché aveva avuto modo di riflettere oggettivamente sui pericoli dell’immigrazione selvaggia ed era giunto alla ragionevole conclusione che bisognava sbatterli fuori subito, quei selvaggi, primo per la purezza della razza francese, secondo per la disoccupazione, e poi per il discorso della pubblica sicurezza. Quando si hanno tante buone ragioni per avere un’opinione giusta, non bisogna lasciarsela  macchiare da accuse di razzismo.
(…)

Autore: ufj | Commenti 2 | Scrivi un commento

  13.01.2009 | 12:36
geoff dyer – paris trance
 
 

La cosa che più di tutte mi infastidisce in un film sono le scene amici-a-cena-tipo-film-di-woody-allen dove gli attori blaterano tutti assieme in una conversazione che deve apparire al contempo brillante e spontanea, ma che finisce coll’essere né l’una né l’altra. Dove i protagonisti hanno lo stesso gradiente intellettual-mondano, sono dotati dello stesso senso dell’umorismo, fanno lo stesso tipo di battute e hanno letto esattamente gli stessi romanzi. Quelli, appunto, che ha letto l’autore della sceneggiatura. E i comprimari invece sono rigorosamente una delle seguenti tre: 1) ragazzina stupidotta ma molto-molto-fica che finisce per farsi fottere dall’intellettualino magrolino e simpatico epperò dotato di un enorme uccello 2) marito palestrato e/o in carriera che finisce per farsi fottere la moglie dall’intellettualino magrolino e simpatico epperò dotato di un enorme uccello 3) intellettuale umbratile e autolesionista che si sbronza in silenzio finché non è talmente cotto che confessa alla tavolata che il suo più grande desiderio sarebbe quello di fottersi l’intellettualino magrolino e simpatico epperò dotato di un enorme uccello.
La cosa che più di tutte mi infastidisce in un libro sono le scene di sesso. Vi sorprende? Nel 99% dei libri (e io non arrivo ad averne letti un centinaio) le scene di sesso appaiono statiche, legnose, ridicole. Cose tipo “Amore permettimi di suggere il nettare del tuo Segreto” al posto di un più verosimile “Voglio leccarti la figa immediatamente”. Rendo l’idea? Quel geniaccio di Bukowski, per dirne una, non ha mai descritto una scena di sesso. Controllate. Tutta la sua letteratura è intrisa di sesso, ma nessuna descrizione. Si limitava a cose del tipo: “A un certo punto glielo misi dentro e dopo un po’ sborrai”. Mi spiegate che altro c’è da raccontare in una scena di sesso?

Ebbene, all’interno di questo romanzo fastidiosamente infarcito di citazioni cinematografiche (e ancor più fastidiosamente imbottito di note esplicative ad opera dello sciagurato traduttore, un essere capace di tradurre con ‘ristorante cinese a portar via’ un’espressione che suppongo suonasse ‘chinese takeaway restaurant’ in lingua originale) c’è poco altro: brillanti chiacchierate tra amici a cena o a delle feste e qualche scopatina dei due protagonisti. Vi prego di osservare che le scene di sesso, quattro in tutto se non ricordo male, sono canoniche persino nella sequenza: prima volta figa, seconda volta bocca, terza volta culo, quarta volta sado-maso. A essere precisi, la scena sado-maso non viene descritta ma soltanto lasciata intuire. Posso immaginarmi il motivo.
Sarei disonesto se non ammettessi che il libro è tutto sommato carino, avvincente e si legge in una sera (se hai un piede rotto e fuori nevica). Detesto i confronti ma… tanto per collocare: diciamo un Nick Hornby poco ispirato – ciò che peraltro accade piuttosto spesso anche allo stesso Nick Hornby.

Un estratto, tanto per dare un’idea. Concorderete che la comicità involontaria è giusto dietro l’angolo.
Ai fini della comprensione può essere utile sapere che i due tengono in camera un vecchio specchio che talvolta riflette le immagini con qualche secondo di ritardo. Ah, aggiungo che solo un inglese può davvero pensare di pisciare nel lavandino e farla franca quando la sua donna capita di essere nei paraggi.

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(…)
Luke si mosse verso di lei, cominciando a spingere delicatamente. Nello specchio lei gli stava ancora spalmando la crema. Il pene scivolò tra le natiche. Lei allungò una mano dietro di sé per guidarlo. Lui spinse. Lei ansimò.
- Fa male?
- Sì.
- Scusa, vuoi che smetta?
- No, continua.
Si aprì le natiche. Luke vedeva il buco, scuro, imbrattato di crema bianca. Lei si piegò in avanti, spinse.
- Sì, così… no, così, sì.
Sentì che le entrava dentro.
- Ah, fai piano. Aspetta, aspetta.
Ora l’uccello era dentro di lei.
- Così!
Lui spinse un altro po’, sentiva la punta dentro di lei, stretta in una morsa. Nello specchio Nicole lo vide che spingeva, non ancora dentro di lei.
- Sì.
- Ti piace?
- Sì, sì. Spingi più forte, di più – disse lei toccandosi.
- Sto per venire.
- Aspetta – gemette lei – aspetta!
- Vengo, vengo, ecco.
- Sì, adesso, sì.
Luke le franò addosso. Nello specchio erano ancora allacciati, irrigiditi sull’orlo dell’orgasmo. Rimasero stesi così, senza parlare, poi Luke si girò su un fianco.
- E’… è pulito? – domandò Nicole. Luke si guardò il pene.
- Sì.
- Meno male.
- Se era sporco non importava – rispose Luke – ma vado a lavarmi lo stesso.
Luke si sciacquò e pisciò nel lavandino mentre Nicole si sedeva sulla tazza. Le accarezzò la testa e uscì dal bagno. Diluviava. Luke aprì la porta finestra, impressionato dallo scroscio. Si misero a letto ad ascoltare la pioggia, a guardarla riversarsi, scivolare e schizzare via dal pavimento del balcone. Le luci sul lato opposto della strada erano sfocate e striate.
- Ti è piaciuto?
- Cosa?
- Che ti entrassi nel culo?
- Sì. Sei così dolce, Lukey. Eri nel mio nucleo. E’ così che si dice?
- Sì
- Era… non so, primitivo.
- Lo avevi già fatto?
- Perché?
- Così.
- Sì l’avevo fatto, e tu? No, non dirmelo. Se l’hai fatto non voglio saperlo.
(…)

Autore: ufj | Commenti 11 | Scrivi un commento

  04.01.2009 | 12:04
una replica ai lettori della 'lanterna'
 

C’è la neve, fuori, e le nuvole sono talmente basse che sembrano volersi rifugiare dentro ai tombini. Avanzo faticosamente all’interno di questa giornata viscosa nel modo di un dito in un panetto di burro.
Basta.
Chiudo la finestrella di autlùc e do un tirone al telefono. Sposto l’interruttore del cervello dalla modalità ‘fai’ alla modalità ‘pensa’. Gniiiiiiieschh. Orpo. E’ venuto decisamente il momento di dare un’oliatina.
Ho promesso una replica a quel tizio de ‘La lanterna di Born’.
Vediamo.
Vediamo se riesco a tirare fuori qualcosa che abbia la parvenza di un significato.
Sai che... devo riconoscerlo: sono lusingato.
Lusingato, sì.
Lusingato che i miei pastrocchi mentali abbiano saputo suscitare sensazioni contrastanti in un pubblico lontano.
Ché la scrittura non è altro che questo. Movimentare neuroni altrui. Sensazioni.
Un pubblico?
Wow, sono famoso.
Sono lusingato.

A quanto pare ‘Il colpo’ ha fatto colpo. Ma qualcuno ha inteso la scena finale come l’ennesima rappresentazione di quel topos sfruttanto allo sfinimento che contrappone Eros e Thanatos. Qualcun altro invece lo trova discontinuo nel linguaggio, sottolienando il contrasto – poco significativo in termini narrativi, a detta sua – tra l’eccessivo lirismo di certi passaggi e la crudezza posticcia di certi altri.
Ebbene, io volevo restare lontano da quel ‘pulp’ in cui evidentemente sono invece precipitato a capofitto. Ma – credetemi – non c’è autocompiacimento, né voglia di stupire. Nessuna ‘provocazione’, perlomeno intenzionale.
C’era soltanto la volontà di scrivere una storia. Una storia che funzionasse. Il lettore se li doveva vedere davanti, quei due, lì davanti ai suoi occhi, nel suo tinello, sul suo letto, attorno al suo tavolo a fare quelle cose, ed egli lì, basta, fermatevi!, ma no, nente da fare, la storia continua, si sviluppa parola dopo parola, disgustosa eppure ridicola, forse, come la vita stessa.
Per finire, una storia che non virgolette affronta il tema della necrofilia chiuse virgolette nel modo in cui, che so, ‘Dead man walking’ affronta il tema della pena di morte. Una storia che semplicemente finisce con una scena di sesso con due uomini e una donna morta. E Voi, sì, Voi, onnipotenti lettori, Voi conoscete il loro destino, ora, di questi piccoli schifosi vermi umani. Siete Voi il loro Dio. Sta a Voi giudicarli. E se ritenete che valga la pena di farlo, ebbene, molto umilmente io ho raggiunto il mio scopo.

Pure ‘Come ti senti, Amico Fragile?’ ha suscitato perplessità a livello sia narrativo che di linguaggio. Due differenti lettori ravvisano entrambi incongruenze nel finale. Uno si attendeva un finale meno vivido, che ‘lasciasse all’immaginazione del lettore’ di chiudere la storia. L’altra, al contrario, attendeva un ‘botto’ che – a detta sua – non c’è stato. Che dire? Forse hanno ragione entrambi. Mi limito a osservare che il finale è intenzionalmente 'in rilievo'. Al punto che l'io narrante, nel pre-finale, dice esplicitamente 'sono sempre stato uno di quelli che devono per forza scrivere un finale in tutte le storie'. Ecco, questo racconto gioca sul contrasto tra la verosimiglianza – un paio di lettori non resistono alla tentazione di domandarmi che cosa c’è di vero – e la ‘rotondità’ della storia – il finale, appunto, ma anche il dialogo virtuale De-André-esco, smaccatamente sopra le righe.
Oppostamente, proprio a proposito di verosimiglianza, la lettrice pone un’obiezione che riassumo in questi temini: pare impossibile che un estimatore di De André possa essere così cretino da sorbirsi una scarrozzata in piena notte per l'illusione di una botta e via. E’ verosimile? Da donna, ella ritiene che sarebbe stato invece normale che costui analizzasse con un amico la conversazione punto per punto al fine di capirne il vero senso. Ebbene: la lettrice scrive giustamente ‘da donna’. Ma il soggetto in questione è un uomo, e neanche tanto furbo – ma questo è un dettaglio. De André, è stata – anzi, è – la sua grandezza: sapeva far camminare mano nella mano, nello stesso vicolo sudicio, l’angelo e il diavolo, l’intellettuale e la puttana, la destra più becera per mano alla sinistra chic-illuminata. Potrei aggiungere che io stesso, dall’alto della mia infinita autoproclamata scaltrezza, per una botta e via ho fatto ben di peggio. Sapete che vi dico? Che un giorno o l’altro ve lo racconto pure...

‘La rosa nera’ rappresenta per me un viaggio in territori alieni, in termini di linguaggio. Che ha generato invero più perplessità che consensi. Anche qui prendo atto e ringrazio. Sapete, là fuori c’è un’umanità di insignificanti insetti scorrazzanti sul fondo di una vasca da bagno, inconsapevoli che qualcuno sta per aprire il rubinetto (l’immagine è di Emidio Clementi, cui va la mia gratitudine per aver riformato i ‘Massimo volume’). Ma forse c’è qualcosa che trascende. Che so: l’amore, l’arte, vattelapesca. O forse la mera semplicità dei gesti quotidiani. Una sorta di eroica affermazione di se stessi attraverso la propria ordinaria semplicità. Esagero? ‘Ogni piccola candela illumina un angolo di oscurità’ canta Roger Waters. E, chissà, forse c’entra un pochino con ciò che intendevo dire.

Di nuovo ringrazio i lettori che sono dati la pena di trasmettermi le loro sensazioni e anche coloro che mi hanno dedicato qualche minuto soltanto leggendomi. E di nuovo ringrazio il tizio de ‘La lanterna di Born’ al pari dell’intera redazione per la succulenta opportunità.
Arrivederci a presto.
Sì, è una minaccia.

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