blog.tapirulan.it
 
  23.02.2009 | 18:07
david foster wallace - infinite jest
 
 

la recensione sarebbe stata destinata a questo blog, ma i ragazzi di maidireblog desiderano pubblicare soltanto materiale inedito. e sia. li accontento volentieri: mi torna comodo. questo post era davvero troppo polposo. la recensione, a chi dovesse interessare, si trova qui.

l’episodio dell’agonia di povero tony è sfortunatamente troppo lungo per essere riportato integralmente. è un vero peccato, potete credermi.

----------------------

La malattia di Povero Tony peggiorava con l’Astinenza. I sintomi stessi sviluppavano sintomi, noduli e avvallamenti che palpava con delicata attenzione nel cassonetto, con addosso le bretelle e l’orribile berretto di tweed, stringendo a sé una borsa della spesa con dentro la parrucca, la giacca e tutte le cose belle che non poteva né mettersi né dare in pegno. Il cassonetto vuoto della Empire co. nel quale si nascondeva era nuovo, verde mela fuori e nudo ferro increspato dentro, e restava nuovo e inutilizzato perché la gente si rifiutava di avvicinarsi abbastanza da adoperarlo. Povero Tony ci mise un po’ per capire il perché; per un breve tempo aveva pensato a un caso, al pallido sorriso della fortuna. Furono gli spazzini di un camion-chiatta della E.W.D. a chiarirgli la cosa con un linguaggio che lasciava molto a desiderare in quanto a tatto, a suo modo di vedere. Quando pioveva, dal coperchio di ferro verde filtrava l’acqua e su un lato del cassonetto c’era una colonia di formiche, e Povero Tony temeva e detestava particolarmente le formiche sin dai tempi di un’infanzia nevrastenica; e alla luce del sole quel rifugio diventava un ambiente di vita infernale, dal quale anche le formiche sembravano allontanarsi.
A ogni passo nel corridoio nero della vera Astinenza, Povero Tony Krause si impuntava e semplicemente rifiutava di credere che le cose potessero andare peggio. Poi smise di capire in anticipo quando era il momento di andare alla toilette, diciamo così. L’orrore dell’incontinenza non può essere descritto in modo appropriato. Fluidi di varia consistenza cominciano a scorrere da diversi orifizi. Poi, naturalmente, restavano là, i fluidi, sul fondo di ferro del cassonetto. Là stavano, non se ne andavano. Lui non poteva pulire e non poteva farsi di eroina. Il completo insieme delle sue relazioni interpersonali consisteva di persone a cui non importava niente di lui e di persone che volevano il suo male. Nell’anno del Whopper il suo defunto padre ostetrico si era stracciato i vestiti in segno di simbolico ‘shiva’ nella cucina di casa Krause, 412 Mount Auburn street, nell’orribile centro di Watertown. Fu l’incontinenza più la prospettiva degli assegni mensili dell’Assistenza Sociale a stanare Povero Tony e costringerlo a una folle corsa traballante per trasferirsi nel bagno maschile dell’oscura Biblioteca della Armenian Foundation a Watertown, di cui provò a rendere più confortevole uno degli scanni con fotografie di riviste patinate, qualche amato soprammobile e carta igienica disposta tutto intorno al sedile del gabinetto; poi tirò ripetutamente lo sciacquone e fece il possibile per contrastare la vera Crisi d’Astinenza a forza di bottiglie intere di Codinex Plus. Una minuscola percentuale di codeina viene metabolizzata in sana vecchia morfina C17, e concede un agonizzante accenno di quel che può essere un vero Sollievo dalla Scimmia. In altre parole, lo sciroppo per la tosse non fece altro che allungare il processo, estendere il corridoio – lo sciroppo rallentò il tempo.
Povero Tony Krause restava giorno e notte nel suo scanno domestico, seduto sul water rivestito di isolante, alternativamente emettendo fiotti e tirando lo sciacquone. Alle 1900h sollevava i tacchi a spillo quando il personale della biblioteca guardava sotto la porta degli scanni e spegneva le luci lasciando Povero Tony in un’oscurità dentro l’oscurità che era così assoluta da non riuscire più a sapere dov’erano le sue stesse membra, se c’erano ancora. Lasciava lo scanno forse ogni due giorni e, riparandosi nelle ombre, zampettava come un pazzo fin da Brooks con indosso una specie di patetico mantello o scialle fatto di fazzoletti di carta marrone presi dal bagno degli uomini.
Con il progredire dell’Astinenza, il tempo cominciò ad assumere per lui degli aspetti nuovi. Il tempo cominciò a passare come se avesse dei bordi affilati. Quello che passava nello scanno buio o semibuio sembrava trasportato da una processione di formiche, una luccicante colonna marziale di quelle rosse formiche militariste del sud degli U.S.A. che costruiscono cumuli altissimi, pullulanti e disgustosi; e ogni schifosa formica luccicante voleva una minuscola porzione della carne di Povero Tony in ricompensa per aver fatto avanzare lentamente il tempo lungo il corridoio della vera Astinenza. Alla seconda settimana nello scanno, il tempo stesso sembrava essersi trasformato nel corridoio, buio davanti e buio dietro. Qualche giorno ancora e il tempo cessò di passare, o di essere trasportato, o persino di essere qualcosa connesso a qualsiasi movimento, e assunse una forma superiore e distinta, quella di un enorme uccello senza ali, con le piume flosce e gli occhi arancioni, incontinente, appollaiato in cima allo scanno, che sembrava osservare Povero Tony Krause senza alcun interesse per lui come persona, né sembrava augurargli del bene. Anzi. Dalla sua postazione in cima allo scanno gli diceva sempre le stesse cose, incessantemente. Cose irripetibili. Neppure nella misera esperienza di vita di Povero Tony poteva esserci qualcosa capace di prepararlo all’idea che il tempo avesse una forma e un odore, e stesse accucciato davanti a lui; e i sintomi fisici sempre più gravi erano come una giornata passata a fare shopping da Bonwit, a confronto con il tempo che gli diceva che quei sintomi non erano che pallidi accenni, dei segnali stradali che indicavano un insieme più vasto e infinitamente più terribile di fenomeni connessi all’Astinenza che erano sopra la sua testa appesi a una cordicella che si sfilacciava inesorabilmente col passare del tempo. Che non si fermava né finiva; cambiava solo forma e odore. Entrava e usciva da lui come il più terribile dei detenuti che lo avevano assalito nelle docce. Una volta Povero Tony aveva avuto l’hubris di pensare di avere già avuto sul serio il tremito, in passato. E invece non aveva mai davvero tremato fino a quando le cadenze del tempo – taglienti e fredde e stranamente odorose di deodorante – non avevano cominciato a entrargli nel corpo da diversi orifizi – fredde come solo il freddo umido sa essere – la frase di cui pensava di conoscere il significato era ‘il freddo fin dentro le ossa’ – colonne di freddo rivestite di schegge gli entravano in corpo e gli riempivano le ossa di polvere di vetro e sentiva le sue giunture scricchiolare come vetro frantumato ogni volta che si muoveva dalla sua posizione rannicchiata, il tempo era nell’ambiente e nell’aria ed entrava e usciva da lui quando voleva, gelido; e il dolore del fiato contro i denti. Il tempo lo assaliva nel nero corvino delle notti della biblioteca, con una cresta arancione alla moicana, un bustino di paillettes senza spalline, volgari scarpe Amalfo e nient’altro. Il tempo lo spalmava e gli entrava dentro con brutalità e faceva quello che voleva e lo lasciava nella forma di un infinito fiotto di merda liquida che nessuno sciacquone riusciva a mandar via. Passò un sacco di tempo morboso a cercare di capire da dove venisse tutta quella merda se non beveva che Codinex Plus. Poi a un certo punto capì: il tempo era diventato la merda stessa; Povero Tony si era trasformato in una clessidra; ora il tempo passava attraverso di lui; Povero Tony aveva cessato di esistere se non nel suo flusso dai bordi taglienti. Ora pesava 45 kg circa. Aveva le gambe delle dimensioni delle sue braccia di prima dell’Astinenza. Era perseguitato dalla parola ‘Zuckung’, un termine straniero e forse Yiddish che non ricordava di avere mai sentito prima. Quella parola continuava a ritornargli in testa con una cadenza da passo di marcia, e non significava nulla. Ingenuamente aveva creduto che quando si impazziva non ci si accorgesse di impazzire; ingenuamente si era immaginato che i pazzi ridessero sempre. Continuava a rivedere suo padre senza figli maschi – mentre gli smontava le ruotine della bicicletta, controllava il beeper, si metteva camice verde e maschera, versava tè freddo in un bicchiere zigrinato, si strappava la camicia sportiva dal dolore di avere lui come figlio, mentre gli afferrava la spalla, crollava in ginocchio. Lo vedeva da lontano attraverso vetri fumé, mentre veniva calato sottoterra nel cimitero di Mount Auburn, e nevicava. “Raggelato fino alle Zuckung”. Poi, quando finirono anche i fondi per lo sciroppo alla codeina, Povero Tony rimase seduto sul gabinetto dello scanno sul retro nei bagni della biblioteca della A.F. circondato dai suoi vestiti che prima lo avevano tanto confortato e dalle fotografie prese dalle riviste di moda che aveva attaccato al muro con del nastro adesivo cinquinato al banco Informazioni quando entrava; rimase lì seduto per un’altra notte e un altro giorno intero, perché sapeva di non poter arginare il flusso della diarrea abbastanza a lungo per riuscire a raggiungere un altro posto – se ci fosse stato un altro posto dove andare – nel suo unico paio di pantaloni maschili. Durante le ore di apertura a luce accesa, il bagno degli uomini era pieno di vecchi che portavano tutti gli stessi identici mocassini e parlavano Slavo e mitragliavano flatulenze che puzzavano di cavolo.
(...)

Autore: ufj | Commenti 1 | Scrivi un commento

  16.02.2009 | 08:54
figaroquaaa figarolaaaaa
 
 

poiché non sono riuscito a convincerli a intitolare così lo spettacolo, mi consolerò con questo post.
chi non conosce il 'teatro necessario' può continuare a ignorarli. in alternativa può cliccare qui. oppure, meglio ancora, andarsi a vedere un loro spettacolo. non ne resterà deluso.
il loro nuovo 'barbieri' (che pessimo titolo, nevvero?) è stato presentato in prima nazionale lo scorso 1° febbraio. mi sono divertito un casino. qui sotto la mia recensione per l''informazione di parma' (qui - pag. 20).
la bella foto appartiene al papà di daisy.

----------------------

Teatro Necessario, prima nazionale 'Barbieri' 1/2/2009 – Teatro al Parco

In sala qualcuno si schiarisce la voce, qualcuno trattiene il fiato, a qualcun altro sfugge una risatina nervosa. Sul palco, impassibili, i tre barbieri attendono il loro primo cliente. Leggono il giornale, danno sfogo ai numerosi tic, attendono. Si annoiano. Esiste una barriera invisibile tra la platea e il palco, tra l’oscurità della sala e il bianco cangiante delle divise, un ‘limen’ che divide la realtà e la finzione. La prima spassosissima scena di Barbieri si apre solleticando il sottile confine che separa l’attore dallo spettatore, entrambi coinvolti in un reciproco gioco di attesa.
I tre ragazzi del Teatro Necessario (Leonardo Adorni, Jacopo Maria Bianchini, Alessandro Mori) coadiuvati da fido regista Mario Gumina, già al loro fianco nel recente ‘Tête à tête’, mettono in scena una commedia efficace e ben equilibrata che affonda le radici nel fervido humus del teatro di strada, al quale i tre rimangono indissolubilmente legati in virtù del loro spettacolo più noto ‘Clown in libertà’.
Non c’è da sorprendersi, allora, che in ‘Barbieri’ ci sia la musica, tanta, e le acrobazie, naturalmente, e quella giocoleria stralunata collocata esattamente dove confluiscono la gestualità introversa del mimo e la dirompente voracità gestuale del clown e che rappresenta, a conti fatti, una sorta di paradigma, per i tre.
Naturalmente.
Ma a meglio guardare c’è qualcosa d’altro. C’è l’imprevedibilità di oggetti di scena improvvisamente e improvvidamente inaccessibili, di corpi che disegnano movimenti impossibili, di volti mutevoli che esprimono sensazioni ineffabili. In ‘Barbieri’ il gioco della realtà è una corda che si tende fino al limite, al ‘limen’, e poi lo strappo, e poi lo schianto e infine la finzione che erompe in una scintillante pioggia di coriandoli.
Presentato ieri in prima nazionale presso il Teatro delle Briciole, all’interno della rassegna Weekend al Parco, Barbieri ha conquistato un pubblico di tutte le età fin dalle prime battute: la magia della finzione che incanta i bambini, il paradosso della realtà che appassiona gli adulti. Un pirotecnico crescendo di gag, musica e acrobazie che ha saputo strappare ripetuti applausi a scena aperta, fino alla fragorosa, meritatissima, ovazione finale.
Nei mesi a venire Barbieri sarà riproposto in varie città del nord Italia dopodiché, a maggio, la compagnia si trasferirà in Spagna per una breve tournéee.

Autore: ufj | Commenti 0 | Scrivi un commento

  10.02.2009 | 12:33
clara gallini - intervista a maria
 
 

“Leggere queste pagine senza essere accompagnati dal suono della voce di Maria è una grossa privazione. Dobbiamo immaginarcela seduta vicino al camino, su una di quelle seggioline basse che consentono di stare quasi accoccolati al suolo, in una piccola cucina lei cui finestre aprono sui tetti del rione e le montagne più distanti”.
Maria è nata il sei settembre del 1910 a Tonara, piccolo borgo dell’entroterra sardo dove ha trascorso l’intera sua vita, eccezion fatta per qualche occasionale viaggio ‘in città’. Maria non ha terminato la terza elementare; alla madre dice: “Stai tranquilla, stai contenta. Se tu mi avessi studiato forse può darsi che ti avrei abbandonata e sarebbe stato un male maggiore”.
Un’intervista nella quale Maria si racconta con franchezza ma discretamente, sempre attenta a ricordare il bene ricevuto dai genitori, dai nonni, dagli amici più cari. Sfoggiando un’indipendenza di pensiero invero straordinaria, ci racconta le mutazioni del ruolo della donna all’interno della società patriarcale rurale sarda nel periodo che va dalla sua prima infanzia fino a oggi (il 1979, anno in cui l’intervista ha avuto luogo).
L’autrice dell’intervista, insegnante di etnologia ed esperta di cultura sarda, apre la lunga (e sovente ridondante) postfazione con le vibranti parole che aprono questo articolo. E che mentre leggevo, ricordo, condivisi in pieno.

Saranno stati ormai due anni pieni che continuavo a ripetere “Sì, Michi, dài, stavolta vedrai che vengo davvero”.
E poi non ci andavo mai.
Aveva ormai smesso di invitarmi, tant’è vero che l’avevo scoperto per caso da un’amica comune.
Ero scettico, eh.
Però fanculo, ho pensato. Stavolta raccatto macchina e fidanzata e mi invento un weekend a Firenze per assistere a ‘Intervista a Maria’, lo spettacolo teatrale interpretato da Gianna Deidda e Michela Benelli.
In scena c’è un cerchio di pietre, il mondo di Maria, pochi utensili e un paio di sedie, una collocata al centro del cerchio e un’altra sul limitare, quella di Michela, l’intervistatrice, spalle al pubblico tutto il tempo.
Gianna è Maria. Parla lentamente e compie pochi gesti semplici con pari lentezza. Gianna/Maria racconta la sua infanzia trascorsa in un mondo che non esiste più, il tempo del ventennio e poi della guerra, parla di politica, di religione, della vita dura di tutti i giorni. Parla di come vive la vecchiaia, racconta di cosa si attende dalla morte.
Ero scettico, sì.
Ma alla fine dello spettacolo avevo gli occhi lucidi.

Il passo che segue è chiara testimonianza dell’arguzia sottile e a tratti impertinente di Maria.

----------------------

D: Erano ‘rosse’ anche le donne?

R: Un pochettino tiravano. Però qualcuno diceva: “Io faccio quello che voglio!”, rispondeva al marito. “Faccio quello che voglio!” e ascoltava i sacerdoti. A quel tempo parlavano molto male. Io mi sono bisticciata nell’Azione Cattolica. Vede come sono? Quando ci penso mi dico: “Perché l’avrò fatto questo?”. Alle prime elezioni aveva vinto il sindaco: in questo rione il sindaco aveva messo lo stemma, il marteddu, il martello, falce e martello, ma le donne che non capivano dicevano su marteddu e basta, con questo marteddu non la finivano mai! Andiamo alla riunione dell’Azione Cattolica e c’era la presidente. Suo marito è rosso, ma un po’ mandrone [pigro], non lavorava molto, era buono il marito, di grande importanza. Questa signora, quando siamo arrivate tutte quelle del mio rione, cominciava: “Passate voi al martello? Passate voi al martello?”. Io alla fine mi sono stancata. Mi sono alzata e le ho detto: “Ascolti signora Lia, si dovrebbe vergognare di nominare il martello. Ci ha un marito che non lo sa prendere, il martello, e gli fa bisogno! C’è tanta miseria per non sapere prendere il martello!” Pam! E sono uscita fuori! Io quando mi ricordo di questa frase… Eh, c’è passato tanto tempo senza ritornare… mamma mia!… Ma abbiamo discusso anche col parroco, quando c’è stata la promozione di scuola, sempre quest’anno che sto dicendole. Ero disposta di affrontare anche lui, perché è un uomo forte di carattere, che non vuol sentire. Eravamo parlando della scuola, non era ancora finito l’esame della maturità di Pietro e la sorella del parroco: “Cosa state a dire?”, ha detto.
“Stiamo parlando della promozione perché Maria è preoccupata per Pietro”.
“Eh, adesso già promuovono tutti! Promuovono anche i banchi!”.
“E perché – le ho detto – e perché allora Silvana non è stata promossa?”.
“Perché adesso promuovono solo i comunisti, e gli altri li lasciano perdere”.
“E lei perché l’ha bocciato, a Pietro? Comunista era Pietro? Un bambino che non capiva niente, era sotto i suoi piedi?”. Ha chiuso la porta e se ne è entrata dentro. Era disposta a tutto, e se ne è entrata subito perché ha capito. Lei sa che se lo dico, lo dico e basta, anche se mi danno degli schiaffi: li prendo, ma lo dico lo stesso.
Io questo non lo accetto, di parlare di partiti né in chiesa né fuori. I comunisti non devono condannare i democratici, i democratici non devono fare un disprezzo così ai comunisti, specialmente quando si tratta di una persona particolare. Invece (lo vede?) queste cose possono inasprire. Io per me non faccio conto né da una parte né dall’altra, sono come l’organetto, tiro ad ogni parte.

Autore: ufj | Commenti 1 | Scrivi un commento

  03.02.2009 | 11:21
un muro nella testa
 
 

Ivano Fossati 1/2/2009 - Cremona, Teatro Ponchielli

Percepire un cielo che mulina di bianco, erigere un ponte tra noi e il Ponchielli.
La notte è una donna che suona, la notte colleziona brutte ballerine. Il respiro giallo della sala ci carezza la testa, trasferisce il dolore ermetico delle persone euristiche. Dalle crinoline, il buio si libra come iati sui nostri ricordi, è la costruzione di un silenzio sbandato che plana piano sulla cornice di mille futuri. Ivano Fossati indossa noi tutti, e una camicia bianca. E dei jeans, mi pare.
Sono le note che ci girano intorno, una musica leggera da sfrondare, e questo tempo che scorre lieve tra le pendici di un pianoforte. Sono novelle sensazioni, il pallore dinoccolato delle canzoni.
Mi astraggo un istante. Davanti a me, i capelli dei ricordi hanno il dolore dell’assenza.
Vergogna, ora basta, vuoi tagliarti quei rasta?
Con questo muro che scivola in corpo, con questo amore che si sbraccia piano, la consistenza di un aroma umido. Abbattiamola insieme questa giovinezza di altari, prima che il tempo noleggi un grattacielo.
Il nostro amore è un secchiello di speranza. Domiamo presto questi glicini in fiore, respireremo il profumo della stella che colsi per te. Dammi la mano, percorriamo questa strada che vibra, negli angoli della bellezza l’amore è una notte di seta.
Ora basta, vergogna, mi sono preso la rogna.
E’ tardi amore mio, è giunto il momento di riporre le nostre ametiste in uno scrigno del color dell’inquietudine. Guarda, ancora il cielo mulina di bianco.
Sara giocherella con un desiderio d’inverno. “I testi di Ivano Fossati”, dice, “sono bianche farfalle che si librano sui pistilli della sensazione”.
Annuisco. “Raccogliamo il libro della conoscenza, e costruiamo un ponte che sia me, che sia te. Che sia noi”, replico.
“Sì, ma come fare con questa musica che gorgoglia durante il fiume?”
Il mio sospiro è una danza.
“Hai ragione, mia cara. Il ricordo sarebbe una strada che vibra nel calore”.
Sara annuisce. “A proposto di calore. Vorresti mica alzare un altro pochetto, così che il mondo che indossiamo si faccia per noi un cicinino più adiabatico?”

[la foto proviene da qui]

Autore: ufj | Commenti 1 | Scrivi un commento