blog.tapirulan.it
 
  30.03.2009 | 17:27
pausa sigaretta
 
 

ero in piazza ormai da parecchi minuti. chiamai il canna. "ma dove cazzo sei? sarà mezz'ora che ti sto aspettando".
"a casa mia".
"che diamine ci fai a casa tua? dovevamo mica fare l'aperitivo?"
"sono uscito ma... sono dovuto rientrare in casa di corsa".
"santo cielo, e, di grazia, perché?"
"perché c'era troppa figa in giro".
caviglie, polpacci, scollature, cosce, tatuaggi, trasparenze. se per qualcuno la primavera è la liberazione - finalmente - da sciapre maglioni, guanti, felponi, per qualcun altro invece si tratta dell'inizio di una lunga e dolorosa agonia ormonale. la mia storiella pubblicata giorni addietro su tapirelax parla più o meno di questo.
la foto qui sopra è piuttosto nota agli internettari e documenta un curioso caso di cronaca accaduto un paio d'annetti addietro (qui).

Autore: ufj | Commenti 0 | Scrivi un commento

  23.03.2009 | 20:56
autori vari – schegge di mondi incantati
 
 

Un annetto addietro decisi di partecipare alla XIV edizione del trofeo RiLL (Riflessi di Luce Lunare - www.rill.it) con un racconto intitolato ‘Soltanto parole’. Il racconto, che io continuo a considerare gradevolmente originale, era già stato scartato a suo tempo dagli amici de ‘La luna di traverso’ e proprio in questi giorni l’ho riproposto a un terzo concorso. Dovesse restare fuori pure stavolta mi dovrò rassegnare al fatto che, verosimilmente, ‘Soltanto parole’ fa soltanto cagare.
Il Trofeo RiLL è uno dei più autorevoli premi letterari di letteratura fantastica. Molti dei giurati sono scrittori professionisti di un certo rilievo al punto che io stesso – poco avvezzo al fantastico, eccezion fatta per la SF, e lettore di certo non accanito – io stesso ne avevo letti un paio. Faccio anche i nomi: Evangelisti e Mongai.
La redazione prometteva a tutti i partecipanti una copia omaggio dell’antologia dell’edizione precedente del concorso (la XIII). L’ho ricevuta con grande piacere e l’ho letta con altrettanta curiosità. Mi intriga leggere il lavoro di chi è stato, alla fine dei conti, più bravo di me. E’ una buona opportunità di confronto, no?
L’antologia, edita da Nexus games s’intitola ‘Schegge di mondi incantati – Racconti fantastici dal Trofeo RiLL e dintorni’.
Dintorni?
Dintorni di cosa?
Scopro così che la redazione concede, su 160 complessive, soltanto 33 pagine ai racconti selezionati del premio. I primi quattro classificati. La maggior parte dell’antologia consiste in racconti scritti dai giurati stessi. Rileggendo il regolamento mi accorgo che in effetti non è specificato da nessuna parte che cosa conterrà l’antologia del concorso.
Beninteso: non mi permetto di criticare la professionalità di una giuria che ha senz’altro premiato ottimi racconti, né il lavoro operato della redazione sia in termini di prodotto che di promozione. Ci mancherebbe. Solo mi domando: perché inserire racconti di scrittori già affermati che hanno pubblicato con Mursia, Delos, Longanesi, Mondadori e non dare più spazio agli esordienti – quasi duecento i partecipanti alla XIII edizione – ciò che dovrebbe essere il senso primigenio di un premio letterario?
Sa di occasione sprecata.

Aggiungo che, secondo la mia umilissima e discutibilissima opinione, i racconti più interessanti erano proprio i selezionati del Trofeo RiLL. Tra questi, il secondo classificato s’intitola ‘I miracoli di Porta Metronia’ e narra la storia di un poster di Totti che inizia miracolosamente a sudare. Il linguaggio, scanzonato e ‘popolare’, è efficacissimo nel dirimere la storia verso un finale comicamente irresistibile. Un estratto.

----------------------

(…)
Intanto i miracoli continuavano. Doni, portiere della Roma, aveva segnato tre volte, di cui una respingendo un tiro dalla sua tre quarti. Nel calcio era cresciuto un alone di misticismo e mistero. Un commentatore televisivo dotato di un’improbabile chioma rosso arancio, che si esprimeva notoriamente in un italiano approssimativo per sintassi, dizione e fonetica, durante un collegamento con l’Olimpico, dopo l’ennesima incredibile vittoria della Roma, aveva detto: “Qualora si pongano le premesse perché la squadra possa eccellere ulteriorimente”, sfoggiando un impressionante accento fiorentino, e da allora gli erano venuti i capelli bianchi e non aveva più sbagliato un congiuntivo. Un noto e raffinato commentatore sportivo, tifoso juventino, era fuggito in Brasile con una giovane promessa del Torino. Molti arbitri avevano confessato corruzioni e malversazioni e si erano ritirati in modesti eremi in remote zone della Valsugana.
Un giorno di aprile, finalmente, Francesco Totti e sua moglie Ilary erano stati in visita al poster miracoloso, seguiti da un codazzo di giornalisti. All’uscita pare che il Pupone, così chiamato affettuosamente dai tifosi giallorossi, avesse detto alla consorte:
“Amo’, ma davvero puzzo cosi?”
Lei aveva sorriso.
(…)

Autore: ufj | Commenti 2 | Scrivi un commento

  16.03.2009 | 09:57
un'idea da ripetere l'anno scorso
 
 

il 28/2 si è svolta a cremona la premiazione del concorso per illustratori 'calendario duemila9' contestualmente all'inaugurazione della mostra 'gli illustratori di tapirulan'. questo è il mio articolo su maidireblog. il titolo di questo post fa riferimento allo strafalcione del gran cerimoniere french che ha divertito in modo particolare il nostro presidente di giuria nonché ospite d'onore silver. divertito al punto che...

Autore: ufj | Commenti 1 | Scrivi un commento

  09.03.2009 | 20:54
raymond carver – di cosa parliamo...
 
 

Raymond Carver – Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Terminata la lettura del primo racconto di Carver rimasi sbalordito. Nella testa, deambulavano un certo numero di interrogativi, un paio dei quali di una certa entità. Per esempio non riuscivo a capire bene che cosa avessi appena letto. Ma soprattutto non capivo la ragione per cui mi fosse piaciuto così tanto.
Lo rilessi.
Capii che quel racconto non era per niente un racconto.
Quel racconto era come prendere un foglio, ritagliare un rettangolino, guardarci attraverso e vedere esattamente ciò che ci si aspettava di vedere, ma con gli occhi di un altro. In un modo talmente intenso, vivido, da stordire.
Non ha importanza che sia grande città o provincia rurale Americana, upper-class oppure operai mezzi scemi, tragedie familiari o piccoli incontri casuali. In altre parole, non ha alcuna importanza che cosa c’era disegnato sul foglio. E’ il rettangolino che conta.
Il fatto è che Carver, semplicemente, non narra. Trasmette.
Divorai gli altri sedici brevi racconti dell’antologia in una sera. Già. Nella stessa sera ero diventato diciassette persone differenti. Diciotto compreso me. Ero talmente sovraccarico che i capelli mi stavano diritti sulla testa. Dormii male.
Il mattino successivo non dovevo andare in ufficio per via del piede che mi ero rotto giorni addietro. Rimasi sotto le coperte a crogiolarmi quasi tutta la mattina. Provavo una indefinita sensazione di paura e sembrava che starmene lì sotto servisse a rinfrancarmi.
Poi andai a pranzo e tutto svanì.
Sinceramente, non so proprio dire in che misura tutto ciò sia collegato alla lettura di Carver.

Qui sotto riporto integralmente uno dei racconti più corti, invero uno dei più intensi. S’intitola ‘Mirino’.

----------------------

Un tizio senza mani si è presentato alla porta per vendermi una foto della mia casa. Se non era per gli uncini cromati, sembrava un uomo sulla cinquantina come ce ne sono tanti.
“Come ha fatto a perdere le mani?”, gli ho chiesto dopo che mi ha detto che cosa voleva.
“Quella è un’altra storia”, ha detto lui. “La vuole questa foto o no?”
“Si accomodi”, ho detto io. “Ho appena fatto il caffè”.
Avevo appena preparato anche della gelatina di frutta. Ma quello non gliel’ho detto.
“Magari se posso usare il bagno”, ha detto il tizio senza mani.
Volevo vedere come avrebbe fatto a reggere la tazzina.
Avevo già capito come faceva a reggere la macchina fotografica. Era una vecchia Polaroid, grossa e nera. L’aveva assicurata a cinghie di cuoio che gli giravano attorno alle spalle per incrociarsi sulla schiena e così gliela tenevano ferma sul petto. Si piazzava sul marciapiedi davanti alla casa, l’inquadrava nel mirino, premeva il pulsante con un uncino e la foto saltava fuori dalla macchina.
E’ che l’avevo osservato dalla finestra, capite?

Dove ha detto che sta il bagno?”
“Laggiù, alla sua destra”.
Curvandosi e stringendo le spalle, si liberò delle cinghie. Appoggiò la macchina sul divano e si rassettò la giacca”.
“Mentre sono di là, può dare un’occhiata a questa”.
Ho preso la foto che mi porgeva.
C’era un rettangolino di prato, il vialetto, il garage, i gradini d’ingresso, la finestra panoramica e quella più piccola, della cucina, da dove lo stavo osservando.
Che cosa ci dovevo fare con una foto della tragedia?
L’ho esaminata un po’ più da vicino e ho visto una testa, la mia testa, che s’intravedeva all’interno della finestra della cucina.
Mi ha fatto riflettere, vedermi lì così. Ve lo dico io, è una cosa che fa riflettere.
Ho sentito l’acqua scrosciare. Lui è arrivato dal corridoio, rassettandosi con un sorriso, con un uncino si reggeva la cintola e con l’altro si sistemava la camicia.
“Be’, che ne pensa?”, ha detto. “Va bene? Personalmente credo sia venuta bene. So quello che faccio, no? Bisogna ammetterlo, ci vuole un professionista”.
Si è sistemato la patta dei pantaloni.
“Ecco il caffè”, gli ho detto.
E lui: “Lei è solo, vero?”
Si è guardato intorno nel soggiorno, poi ha scosso la testa.
“L’è dura, l’è dura”, ha detto.
Si è seduto accanto alla macchina fotografica, si è appoggiato allo schienale con un sospiro e mi ha sorriso come se sapesse qualcosa che non mi avrebbe rivelato.
“Prenda il caffè”, gli ho detto.

Stavo cercando di pensare a qualcosa da dire.
“Sono venuti tre ragazzini che volevano dipingere il mio indirizzo sul marciapiedi. Volevano un dollaro. Non è che ne sa qualcosa?”
L’avevo buttata lì a casaccio. Ma l’ho osservato bene lo stesso.
Lui si è chinato in avanti serio, con la tazza in equilibrio tra gli uncini. L’ha posata sul tavolinetto.
“Io lavoro da solo”, ha detto. “L’ho sempre fatto, sempre lo farò. Che vorrebbe dire?”, ha chiesto.
“Cercavo solo di fare un collegamento”, ho risposto.
Avevo un gran mal di testa. Lo so che il caffè non aiuta, ma certe volte la gelatina funziona. Ho ripreso in mano la foto.
“Stavo in cucina”, ho detto. “Di solito sto sul retro”.
“Succede sempre così”, ha detto lui. “E così hanno preso e l’hanno piantata, vero? Per esempio, prenda me. Lavoro da solo. Allora, che ha deciso? La vuole questa foto?”
“La compro”, ho detto.
Mi sono alzato e ho raccolto le tazzine.
“Certo che la compra”, ha detto. “Quanto a me, ho una stanza in città. Niente di speciale, prendo l’autobus verso la periferia e dopo aver fatto il giro dei quartieri, vado in un’altra città. Capisce che cosa voglio dire? Anch’io avevo dei figli una volta. Proprio come lei”, ha detto.
Sono rimasto lì con le tazze in mano a osservarlo mentre cercava di rilazarsi dal divano.
Ha detto: “Sono loro che mi hanno rdotto così”.
Ho guardato bene quegli uncini.
“Grazie per il caffè e per l’uso del bagno. La capisco, sa?”
Ha mosso gli uncini su e giù
“Me lo dimostri”, ho detto. “Mi dimostri quanto. Faccia altre foto a me e alla casa”.
“Non funzionerà”, ha detto il tizio. “Non torneranno mica”.
Comunque l’ho aiutato a rimettersi le cinghie.
“Le posso fare un prezzo speciale”, ha detto lui. “Tre scatti per un dollaro”. Poi ha aggiunto: “Se le faccio di meno, ci rimetto”.

Siamo usciti. Lui ha regolato l’otturatore. Mi ha detto dove piazzarmi e ci siamo messi al lavoro.
Abbiamo fatto il giro della casa. Sistematicamente. A volte guardavo da un’altra parte. Altre, fissavo l’obiettivo.
“Bene”, diceva. “Così va bene”, diceva, finché non abbiamo fatto tutto il giro della casa e siamo tornati sul davanti. “Sono venti, adesso. Basta così”.
“No”, ho detto io. “Anche sul tetto”, ho aggiunto.
“Gesù!”, ha esclamato. Poi ha dato un’occhiata su e giù per la strada. “Come no?” ha detto. “Adesso sì che fa sul serio”.
Gli ho detto: “Tutto quanto, baracca e burattini. Se la sono squagliata alla grande”.
“Guardi un po’ qui!”, ha detto il tizio e di nuovo mi ha mostrato gli uncini.

Sono rientrato a prendere una sedia. L’ho sistemata vicino al garage. Ma non era abbastanza alta. Allora ho preso una cassetta e ho messo la cassetta sulla sedia.
Si stava bene lì, sul tetto.
Mi sono messo in piedi e mi sono dato un’occhiata intorno. L’ho salutato con una mano e il tizio senza mani mi ha risalutato con gli uncini.
E’ stato allora che li ho visti, i sassi. C’era una specie di nido di sassi sulla grata che copre il buco del comignolo. Sapete come sono i ragazzini. Li tirano lassù, sperando di farne cadere qualcuno giù per il camino.
“Pronti?”, gli ho gridato, poi ho raccolto un sasso e ho aspettato che mi inquadrasse nel mirino.
“Va bene!”, ha risposto.
Ho tirato indietro il braccio e ho gridato: “Ora!”. Ho tirato quel figlio di puttana il più lontano possibile.
“Non lo so mica”, l'ho sentito gridare. “Di solito non faccio foto d’azione”.
“Ancora!”, ho urlato, e ho raccolto un altro sasso.

Autore: ufj | Commenti 0 | Scrivi un commento

  02.03.2009 | 10:48
quintessenza
 
 

Lordi 26/2/2009 - Milano, Rolling stone

Siamo al sesto, settimo pezzo, o giù di lì. Mr. Lordi somiglia più a un elemento scenografico a basso budget che al frontman di una metal-band. Ma c’è da capirlo. La temperatura del Rolling stone è nell’ordine di grandezza della caldera di un vulcano. E Mr. L., oltre al resto, indossa una pelle d’orso che ha tutta l’aria di essere parecchio esoentropica, le fauci spalancate della bestia a mo’ di copricapo, un cinturone di contenimento che Hulk Hogan a confronto pare un paninaro con la sua El Charro.
Una forza della natura, eh, Mr. L., intendiamoci. Un portento. Quello lì ha la voce di chi nei polmoni ha spazio soltanto per il catarro. Si sgola che pare cantare in una marmitta, invece che nel microfono.
Parte l’assolo del chitarrista. Un certo Amen Ra. Niente più di tre o quattro scale accompagnate da una frondosa gestualità metal-ortodossa di movimenti pelvico-fallici. I padiglioni auricolari rabbrividiscono. Il Nostro ci sta dando dentro, non c’è dubbio, ostentando invero un’imperizia, a dir tanto, canina. Arriccio il naso e incrocio lo sguardo di Gualandri. Gli faccio: “Oh, per dire, io non sarei capace, eh. Mai preso in mano una chitarra. Ma secondo me in una settimana...”
Annuisce: “Sì, certo. Ma appunto. Tu infatti sei qui nel pubblico. E’ lui che è là sul palco”.
“Il che rende la cosa un pochino paradossale, se consideri che per essere qui ho cacciato 22 banane e mi sono sparato 200 km.. E tu anche, mio caro”.
“Doppiamente paradossale, se aggiungi che ci stiamo pure divertendo un casino”.
Taccio.
Gualandri ha ragione.
Mi sto divertendo un casino.
Il mio professore di filosofia un giorno ebbe l’ardire di tentare una definizione del concetto di arte. L’arte – disse – è la facoltà di trasmettere sensazioni altrimenti ineffabili. All’epoca, i Lordi, andavano ancora all’asilo.
Sul palco, la band prosegue per la sua strada. A suon di cadaveri, bava, organi interni, motoseghe che sputano fiamme. Braccia mozzate usate per grattarsi i maroni. Giuro.
Le canzoni? Tanto per inquadrare. Gli stessi arrangiamenti dell’album metal più venduto di sempre: Hysteria dei Def leppard. E le stesse melodie della miglior band palindromica del pianeta: gli Abba.
Tra tutte, mi permetto di segnalare l’attacco di Girls go chopping e il ritornello strappa-reggiseni di Haunted town. E, naturalmente, il bis Hard rock hallelujah, canzone feticcio della band, trionfatrice dell’Eurofestival 2006 – si dice col miglior punteggio di sempre. L’Eurofestival, sì. La medesima competizione canora che sancì il successo di Toto Cutugno con Insieme 1992 e, in pieni anni settanta, degli stessi Abba.
Rivolgo la mia attenzione nuovamente verso il chitarrista. Anubi, doveva chiamarsi, altro che Ra, visto come suona.
E di nuovo mi domando: com’è che mi sto divertendo così?
E penso che forse una vera ragione non c’è. Che la differenza tra arte e intrattenimento sta tutta qui, nel sudore della gente che mi salta attorno e fa le corna con le mani, nel bambinetto di tre anni che non si leva d’in mezzo ai coglioni e agita il culo tutto il tempo convinto di ballare, nelle teste mozzate appese sul palco, nei fumi di scena horror-giallognoli, nei plasticoni, nelle catene, nella vernice rossa che gocciola dalle tastiere, nell’orripilante assolo di un cazzo di finlandese con appiccicato il nome di una divinità egizia travestito da zombi che maneggia la chitarra come fosse una ramazza da cortile.
Concludo che se l’arte è la facoltà di trasmettere sensazioni ineffabili, allora l’intrattenimento non è che una forma di arte in seconda visione.
Qualcuno molto fico una volta disse che il rock non è altro che la banalizzazione del blues, che a sua volta è la banalizzazione del jazz
Il tizio molto fico non sbaglia.
Pensateci.
Il rock, tutto quanto il rock, si basa su un principio di fondo.
La ripetizione.
Ripetizione nei costrutti musicali, negli atteggiamenti macho-rutto-sessuali, nella ciclicità (20-ennale) degli orientamenti sonori e soprattutto nel look.
Quello stesso senso di ripetizione che induce mia nonna, novant’anni suonati, a pianificare l’intera giornata attorno alla puntata quotidiana di Beautiful, e i figli del Sacco a non staccarsi dai Teletubbies per cinque ore di fila senza far fermate, neanche per pisciare.
Signori, ecco il punto. E’ questo che vogliamo. Esattamente questo.
Telenovele, sòpopere, serial, grandi fratelli, sequel, alicicooper, kiss, mani-nel-pacco, are-you-readyyyyy?
Ci affezioniamo.
In questo senso i Lordi rappresentano la quintessenza del rock. I Lordi sono i Teletubbies del metal.

Saluto Gualandri, saluto gli altri. Sono quasi le due e ho addosso un metro cubo di sonno. Risalgo in auto e riparto. Maledetti, penso. Tirano giù il miglior live club di Milano. L’unico in zona con un’acustica un po’ più che decente.
Bah.
Stronzi.
Spengo lo stereo. Mi metto a cantare Armageddon it a squarciagola. Saranno stati vent’anni che non mi veniva in mente quel pezzo. Cazzo quanto mi piaceva.

[grazie a Elena per la bella foto]

Autore: ufj | Commenti 2 | Scrivi un commento