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  26.05.2009 | 10:27
il paradosso di olbers
 
 

per quanto maledettamente potente fosse la roba che si fumava olbers, non è niente in paragone a ciò che si sparano questi tizi.

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Non riuscivo a prendere sonno per via di alcune cose che insistevano nell’essere pensate. Decisi pertanto di giocherellare un po’ col paradosso di Olbers, così da distrarmi un po’.
Secondo Olbers, presupponendo che l’universo sia infinito nelle dimensioni e così pure, nel numero, le stelle, allora il cielo notturno dovrebbe essere tutto bianco invece che nero. Perché basterebbe tirare un’ipotetica linea da un punto qualunque della volta celeste verso fuori e prima o poi si finirebbe coll’intercettare una stella. Una stella messa lì di proposito, per illuminare esattamente quel punto. Una teoria indubbiamente affascinante, sì. Ma anche un poco presuntuosa. Come dire che il cosmo è un immenso lampadario acceso messo lì a uso e consumo di noialtri.
Per qualche ragione fui sbalzato indietro di quasi vent’anni: ritornai con la mente a quel 10 agosto. Io e Marika avevamo trascorso tutta la sera a guardare le stelle sdraiati in un prato, su a Guardasone. Il cielo era terso e le stelle scintillavano come aculei d’argento. Marika mi indicava le costellazioni una a una e mi spiegava l’origine del loro nome. Io ascoltavo e non dicevo nulla. Avevo il cuore che prendeva a calci le costole per uscire, boom, booom, cataboooom! Ero terrorizzato che a un certo punto quell’affare potesse schizzare fuori dal torace e finirle dritto addosso sbrodolando sangue. Pensa che figuraccia. Contavamo le stelle cadenti. Facevamo a gara a chi ne vedeva di più. Lei era arrivata in breve tempo a dieci. Io ero rimasto a tre, e se la memoria non m’inganna avevo barato su una. Eravamo rimasti così tutta la sera, testa contro testa a contemplare le stelle, finché a un certo punto Marika mi aveva chiesto se potevamo rincasare. Immediatamente, il cuore aveva smesso di scalciare. Aveva smesso di battere.  Aveva smesso di fare tutto, insomma. Certamente, avevo risposto, facciamo come desideri. La accontentai, ma mi sentivo molto triste. Possibile che lassù in quel casino di puntini non ci fossero più costellazioni da guardare? Neanche una? Possibile che avessimo già visto tutto? Ma faceva freddo, effettivamente, e il cielo si stava rannuvolando. Lo maledissi.
Raccogliemmo i nostri teli e facemmo ritorno a casa. Prima di scendere dall’auto Marika mi baciò una guancia e mi guardò negli occhi. I suoi occhi erano più neri di un intero universo, e brillavano più di mille costellazioni. Brillavano più di quanto avrebbe brillato il cielo medesimo se pure avesse dato retta a Olbers e si fosse fatto tutto bianco di stelle.
La settimana successiva Marika aveva un nuovo fidanzato. Un certo Alberto. Un tizio che faceva il terzo anno di Fisica, appassionato di stelle e di fantascienza. No, non ero io. Io ero matricola di Ingengeria e di stelle io… ah, maledizione.
E’ un dato di fatto che il paradosso di Olbers in realtà fu formulato da Keplero. Mi addormentai domandandomi quante volte nella vita le cose che dovrebbero essere tue finiscono in realtà nelle mani di qualcun altro. E perché, poi.

Autore: ufj | Commenti 0 | Scrivi un commento

  13.05.2009 | 18:33
arial does times new roman
 
 

Ero al bancone del Dulcamara intento a terminare la mia seconda birra. Ma la prima insisteva per uscire. Malvolentieri, decisi che era opportuno farmi un giro di là. Mentre attendevo il mio turno vidi nel tavolino lì vicino gli amici della 'Luna di Traverso'. Mi sedetti a fare due chiacchiere.
“Che state facendo?” domandai.
“Stiamo decidendo il tema del prossimo bando”, rispose Enrico.
“E’ sarà?”
“Times new Roman”.
“Cosa?”
“Times new Roman”.
Avevo capito giusto. “Che cazzo di tema”, pensai. Dissi invece: “Oh, originale”, e gli sorrisi come si sorriderebbe a un dentista con un trapano in mano.
“Sapete cosa? Vi manderò un racconto erotico intitolato ‘Arial does Times new Roman’” sghignazzai.
Sghignazzarono anche gli altri.
“Ti prendo in parola” disse Federica.
Mentre rilasciavo la prima birra ci riflettei su. Interpretai il tema a modo mio: un racconto che parla della scrittura, dell’atto di scrivere, insomma. Messa così mi parve una bella idea. Tirai l’acqua. Tanto più che avevo già qualcosa di pronto. Un raccontino agrodolce intitolato 'Q W E R T Y'. Dovevo soltanto ricordarmi di cambiare il nome della protagonista da Manuela a qualcos’altro. Il fatto è che a Sara vengono le fiamme agli occhi ogni volta che sente pronunciare quel nome. Figuriamoci vederlo scritto.
Tempo dopo incontrai Federica. Stava tagliando del salame. Aveva una grande pancia e sbuffava per la fatica.
“Allora, ci sono novità?” domandò.
“Sono io che lo chiedo a te” e guardai la pancia.
“Intendevo ‘Arial does Times new Roman’”.
Le sorrisi come si sorriderebbe a un dentista con un trapano in mano. Ma che diamine stava dicendo? Ah, il racconto, sì. Cavolo. Me l’ero scordato di brutto.
Andai a casa e lo scrissi di getto. Come sempre il racconto uscì differente dalle intenzioni – per esempio non era più erotico, e il titolo era mutato semplicemente in 'Arial' – ma era carino, dopotutto. Sì. Poteva andare. Il giorno dopo lo inviai ai ragazzi della 'Luna' con dedica a Federica.
Sono passati alcuni mesi da allora e il racconto è stato pubblicato lo scorso 19 aprile su ‘L’informazione di Parma’ (qui).
Alla ‘Luna di Traverso’ inviai per errore la versione di ‘Q W E R T Y’ con il nome originario. Il racconto fu pure pubblicato sulla rivista. Recentemente ho notato che Sara mi guarda con uno strano riflesso igneo negli occhi. Inizialmente congetturavo che fosse la primavera.

Autore: ufj | Commenti 2 | Scrivi un commento

  07.05.2009 | 17:20
jean-claude izzo - solea
 
 

Recentemente ho conosciuto non una ma ben due persone, tra l’altro di sesso opposto, entrambe convinte che ‘Solea’ sia il più bel romanzo che abbiano mai letto.
La cosa mi ha incuriosito.
“Izzo è un bravissimo scrittore”, ha aggiunto Sara, “ma non devi essere troppo depresso quando lo leggi, mi spiego?”
Mi sono pure ricordato di una tizia che ci aveva scritto su un racconto. Una certa Monique Pistolato, se non ricordo male.
Sembrava davvero che tutto il mondo avesse letto questo straordinario romanzo, al di fuori del sottoscritto.
Potete immaginare la sorpresa di scoprire che ‘Solea’ faceva parte della catasta di libri che mi aveva prestato il Maffo.
Lo cominciai subito.
E subito capii.
‘Solea’ è un gialletto semplice e ingenuotto, la cui trama è tenuta insieme quasi esclusivamente dalla benevolenza del lettore. Un esempio tra i tanti. Una giornalista ha fatto una scoperta sconvolgente e ora è braccata dalla cupola della mafia mondiale. Si è rifugiata a casa di un amico, in un posto sicuro, sui monti, tra le capre. Il protagonista del romanzo, un suo ex-amante anch’egli tenuto d’occhio dalla mafia e dalla polizia, a un certo punto decide di contattarla. Ebbene: si procura il numero di telefono in due – dico esattamente due – righe di romanzo.
‘Solea’, nelle intenzioni dell’autore, è anche una sorta di manifesto ideologico, irto com’è di ramanzine. Tirate sulla cattiveria dell’uomo, sulla malvagità dei mafiosi e sulla fascisteria del Fronte Nazionale che hanno lo spessore narrativo di paternali per bambini disubbidienti e la pertinenza di uno stronzo dentro a un minestrone.
Ma la scrittura di Izzo riesce in qualche modo a essere viscerale, a emozionare. Sara si sbagliava. Al contrario: bisogna essere un tantinello depressi per apprezzare al meglio il romanzo in questione. Ma compresi comunque: ‘Solea’, voleva dirmi, è un eccellente esaltatore di sapidità emotiva.
C’è la figura di questo lupacchiotto solitario mezzo alcolizzato, ma dal cuore grande così, costretto a portare dentro il dolore di una ferita che mai si rimarginerà, questo anti-anti-eroe capace di buttare per aria una vita intera (di fallimenti?) soltanto per inseguire il palpito di un singolo istante; ecco, spetta proprio a lui il (relativamente) facile compito di traghettare dalla sua parte del fiume l’animo sbatacchiato di qualunque lettore si sia sentito, una volta nella vita oppure spesso, artefice o prigioniero di una analoga situazione.
Vita e morte, pesi opposti di una medesima leva, insomma, e il destino a fare da fulcro. Niente di esageratamente originale, dopotutto. E poi, parliamoci chiaro. A chi in realtà non è mai capitato? Chi di noi non ha mai afferrato i lembi della tovaglia coi pugni così stretti da fare bianche le nocche, strizzato i denti e il buco del culo e desiderato con tutto se stesso di dare quello stramaledetto strattone e fare volare tutto per aria? Chi?
E allora, a mio modo di vedere, Fabio Montale, il protagonista di ‘Solea’, non è che un altro mezzo fighetto ruffiano e qualunquisticamente sinistrorso, capace di apprezzare le cose piccole della vita e al contempo di magnificare l’eccellenza del Lagavulin per via di “quel leggero aroma di torba”. Uno di quei personaggi da aperitivo simpatici, che raccontano sempre le stesse storie strambe, che saluti volentieri, con i quali scambi anche quattro chiacchiere mentre sei lì al bancone del Dulcamara. Mentre aspetti che ti arrivi la birra che hai ordinato; mentre attendi l’arrivo della tua fidanzata per dirle che l’ami; mentre soppesi i pro e i contro di una decisione importante che devi prendere. Negli iati tra un momento di vita vera e il successivo.
Ma, d’altronde, un romanzo non è niente di più, niente di meno di questo.

Chi mi conosce sa che passaggi come questo qui sotto non m’impressionano più di tanto. E chi conosce il Lagavulin sa che il Lagavulin, al limite, è torba con un leggero aroma di whisky.

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Non avevo sputato sulle stelle. Non avevo potuto.
Al largo delle isole Riou avevo spento il motore e lasciato vagare la barca. Più o meno nel posto dove mio padre, tenendomi sotto le ascelle, mi aveva per la prima volta immerso nel mare. Avevo otto anni. L’età di Enzo.”Non avere paura”, diceva. “Non avere paura”. Non avevo avuto altri battesimi. E quando la vita mi faceva male era sempre in questo luogo che tornavo. Come per tentare, lì, tra il mare e il cielo, di riconciliarmi con il resto del mondo.
C’ero venuto anche dopo la partenza di Lole. Fino a qui. per un’intera notte.
Un’intera notte trascorsa a elencare tutto ciò che mi rimproveravo. Perché dovevo dirlo. Almeno una volta. Anche al nulla. Era il 16 dicembre. Il freddo mi congelava le ossa. Malgrado il Lagavulin che mandavo giù piangendo. Tornando, all’alba, avevo avuto la sensazione di tornare dal paese dei morti.
Solo. E nel silenzio. Ero avvolto da ghirlande di stelle. Dalla volta che disegnavano nel cielo nero. E dal riflesso sul mare. Unico movimento, quello della mia barca che galleggiava sull’acqua.
Restai così senza muovermi, Con gli occhi chiusi. Fino a quando, finalmente, sentii sciogliersi quel groppo di disgusto e tristezza che mi opprimeva. Qui, l’aria fresca restituiva al mio respiro il suo ritmo umano. Libero dalla sua lunga angoscia di vivere e di morire.

Autore: ufj | Commenti 4 | Scrivi un commento