Il primo dente Julius me lo tolse senza anestesia. Forse, pensò, sarebbero bastati i suoi occhi verdi, con delle strane ombre a forma di foglia, quasi ci crescesse dentro la giungla intera. Puzzava di acquavite. Trovavo le sue pupille a un livello di combustione superiore. Dopo aver fatto l’amore mi confessò che non era sicurissimo che l’estrazione fosse del tutto necessaria. Certo, denti ne avevo tanti. L’aveva fatto, diceva, più che altro per tenermi lì vicina. Era l’unico modo per tirarti fuori un po’ di sangue, no, chiquita? Rifacemmo l’amore. Di quel dente, non mi pentii.

Il secondo credo fosse un giudizio superiore. Li avevo tenuti tutti nell’eventualità non dimostrata che mi dessero davvero, una volta spuntati, un bonus di giudizio, come una riserva accumulata di buon senso. Il medico di Lima non aveva nulla di Julius, era grigino e sovrappeso, molto gentile, con tutta un’impressione di morbido e appiccicaticcio. Fu veloce e professionale. Non mi sembrò, nemmeno negli anni successivi, che la dote di giudizio ne risultasse particolarmente compromessa.
Da piccola mi capitava spesso di sognare che i miei denti si confondessero: che cadessero quelli definitivi e non quelli da latte a fianco. Mi svegliavo in preda all’ansia. Come potevo spiegarmi ai miei denti? Poi capitò. Mi cadde un giorno, di colpo, un incisivo superiore. Avevo ventisette anni. Ricrebbe.

Non lo dico per fare quella che va spesso a Shangai. Fosse per me, a Shangai, non ci andrei proprio. Troppe luci, troppa voglia e troppa fede nel progresso, troppe poche persone disposte ad abbracciarti. Mi trovavo lì, comunque, era martedì notte e dovevo spiegare che avevo una carie mal curata che mi trapanava dalla mandibola tutta la fascia sinistra della testa, con radicamenti nel collo. Non piangevo nemmeno, per non muovermi troppo. Non capirono, o se capirono, non collaborarono. Provai una droga andina. Tamponò. Trovai poi un abbraccio e un chirurgo.

Uno mi si scheggiò cadendo dalle scale. Molti lividi e un graffio superficiale ma molto sanguinante. Mi accompagnò Andrea al pronto soccorso. Notai gli sguardi dei medici sul suo fisico da ex canottiere. Mi tradiva, sfacciatamente, quasi fosse un suo diritto acclarato. Quando si allontanò le domande si fecero insistenti. Capii che non avrei mentito, i cliché avrebbero giocato per me. Ripetei molte volte no, cadendo dalle scale, no, sono stata io. Lo trattennero poi per accertamenti. Sorrisi: non mi spiaceva.

L’ultimo non lo levarono proprio. Lo incapsularono. Il contrario di un intarsio, capisce, signora? Non tanto, ma detestavo chi mi chiamava signora: smettevo di ascoltare, pur non muovendo – forse appena tirando un po’ sui margini – un sorriso d’ordinanza. La ceramica costò moltissimo, ci vollero due sedute, tre anestesie, un provvisorio di una strana sfumatura color abito da sposa di raso. Era un canino. Rimase sempre un pochino più lungo, rispetto a prima. Non lo si notava, a colpo d’occhio. Nei segni sulla pelle, lì sì che si notava, arrivava prima degli altri, restava più violetto.

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