Ti sei mai chiesto cosa accadrà il giorno in cui ti resterà la metà dei giorni da vivere?

Questa mattina il Mera scorre tranquillo. All’orizzonte, canneti velati da umide nebbie nascondono le sue sponde selvagge. Sospensione è la cornice di questa dinamica fluida e ripetitiva: la navigazione placida di una barca, il corpo inclinato in avanti del rematore, l’affondare sincrono dei remi nell’acqua. Sulla sponda opposta del fiume uno sconosciuto osserva, in silenzio, un tronco d’albero andare alla deriva.
La pesca al cavedano si pratica con ami Cristal del dodici, una fila di piombini per far scivolare l’esca in profondità e un galleggiante a penna d’istrice sottile, ma così sensibile da propagare in superficie il primo morso incerto della preda.
Per tuo padre, la pesca diventava emozionante quando il pesce abboccava. Difficile contraddirlo. Quell’attimo decisivo era preceduto da meticolosi preparativi: la montatura dei piombini dal più grande al più piccolo, la chiusura dell’asola, scorgere nell’acqua il ribollire di un nugolo di alborelle, il lancio della lenza, le attese silenziose. Il verme è l’alleato sacrificale. Morto per morto meglio innescarlo a dovere altrimenti il cavedano lo succhia via dall’amo e allora addio.
Socchiudi gli occhi, concentri lo sguardo fra il susseguirsi dei riflessi del sole sull’acqua e l’increspatura di piccole onde mosse dalla brezza, nello sforzo di controllare il movimento del galleggiante. Ti chiedi se sia proprio questo il luogo esatto.
Giovanni era stato perentorio per quanto poteva esserlo un vecchio malfermo e taciturno. Con la matita aveva tracciato, sulla cartina, un segno nero parallelo alla strada provinciale. Un asterisco sbilenco indicava l’inizio del sentiero. Giovanni ricordava concitato quel giorno di trentasette anni prima, i suoi occhi acquosi e gli acciacchi non riuscivano a scalfire la nitidezza dei ricordi:

Quella mattina tuo padre era raggiante, sembrava veramente felice. Faceva caldo. Eravamo partiti all’alba, in moto. Lui non aveva chiuso occhio per tutta la notte, eppure guidò sicuro fino a Lecco. Una sosta per un caffè, al bar dei motociclisti, quello di fronte all’imbarcadero, una nazionale senza filtro aspirata a fondo e poi via.

Giovanni ricordò, chilometro dopo chilometro, l’avvicinamento al fiume: la statale trentasei snodarsi vicino alle sponde del lago, il gocciolio perenne delle gallerie scavate a mano, la luce accecante dell’estate alla fine dei tunnel, Lierna e la sua spiaggia sassosa, le arcate chiare del ponte del passo, il greto del Mera visibile sotto l’acqua trasparente, la casa dai quattro camini che adesso era un ristorante. Senza la presenza dell’uomo, la natura si trasforma con livida e implacabile lentezza.
Dall’altra sponda, lo sconosciuto si sbraccia per richiamare la tua attenzione: vuole soltanto salutarti, o avvertirti di un imminente pericolo? Ha un corpo magro, le braccia robuste, la faccia bruciata dal sole. Assomiglia allo zingaro che incontri, ogni giorno, al semaforo di piazza Sicilia, con un bicchiere di plastica in mano e due occhi che ti scrutano pietosi e incalzanti. Tu, ogni volta che si avvicina, istintivamente blocchi le portiere dell’auto, sfiori l’acceleratore, guardi avanti in un punto imprecisato dell’incrocio, fissi lo sguardo sul semaforo in attesa del verde.
Ti volti all’erta, i muscoli tesi, recuperi, il filo di nailon brilla nella luce del mattino. Appoggi la canna all’argine scosceso, ti guardi intorno: anche alle tue spalle non c’è anima viva. Risali con gli occhi il sentiero ripido. Per terra, ritrovi soltanto: bossoli di plastica gialla, cicche di sigarette, orme di stivali come fossili rinsecchiti nel fango. Nessun rumore.
Cerchi lo sconosciuto, inutile chiamarlo, non ti sentirebbe. Lo vedi riapparire dalla boscaglia, con un bastone in mano. Ripercorri con gli occhi l’ampiezza del fiume, individui il luogo esatto dove vorresti calare l’esca. Sotto le scarpe, la riva esala il puzzo marcescente delle canne. Con la lingua segui i segni sottili e verticali lasciati dal nailon sui polpastrelli. Distingui il sapore ferroso del sangue. Anticipi il lancio, spostando la canna sul lato destro del corpo e liberando la lenza con una frustata secca che traccia un arco contro il cielo e s’inabissa in mezzo al fiume, nel luogo esatto che avevi prescelto. Sinceramente, oggi non t’importa nemmeno che un cavedano abbocchi. Sei qui per lui. Sei qui per cercare di saper qualcosa in più sul suo conto. Questo è il destino dei figli che non hanno mai avuto il coraggio di chiedere spiegazioni ai genitori: non conoscere le loro speranze da adolescenti, com’è nato il loro amore, le promesse, i litigi da sposati, la loro prima vacanza al mare, la tua nascita.
Recuperi con il mulinello un po’ di filo, lo fai variando velocità e direzione per vincere la diffidenza della vittima. Il galleggiante beccheggia ancora, assediato da piccole onde consecutive e imprevedibili. Le parole di Giovanni riemergono nel silenzio rotto dal rumore del fiume.

Tuo padre, quando pescava, sembrava ritrovare un po’ di pace: sigaretta riparata a coppa nella mano, occhi scuri stretti in una fessura, lo sguardo che seguiva la tensione dal filo dal cimino alla superficie dell’acqua. Pescavamo sempre vicini. Più che parlare, bisbigliavamo.

Ti sembra ancora di sentirla la sua voce, il tono cupo che tratteneva un rancore ignoto, i suoi rimproveri:
«Quando si pesca, non si parla!»
E allora tu, dodicenne, con la tua bolognese lunga due metri tacevi, attento a non far impigliare la lenza nelle alghe che galleggiavano a pelo d’acqua. Cercavi di essere indipendente, attendevi la sorpresa dell’abboccata, il pesce uscire dall’acqua sospeso al filo, l’odore delle squame al centro della mano. Ti distraevi guardando i raggi del sole sbucare da nuvole grigie, immaginavi che dietro quelle scie luminose potesse nascondersi Dio.
Oggi come allora riscopri l’incanto del fiume, il suo defluire lento da millenni, i voli radenti e sonori delle libellule. Perché è la voce la prima cosa che si dimentica delle persone che ci lasciano?
Il sole implacabile occhieggia sull’acqua, la punta del galleggiante s’inclina a sinistra per poi affondare perentoria. Per un istante, senti nelle braccia la forza del cavedano, l’istinto disperato della preda in trappola. Lo strattone è deciso.
Ora, dentro e fuori di te, si espande un microcosmo perfetto. Un vento leggero increspa le acque. Cerchi nella memoria i suoi consigli, e la sua voce per incanto riemerge nitida:
«Non avere fretta, lascialo stancare.»
Assecondi il ricordo delle sue parole, cammini sulla riva cercando di favorire il movimento dell’avversario. Recuperi qualche metro, il cavedano lo senti ancora nelle braccia, con forza cerca di scendere in profondità verso il letto del fiume, cambia direzione in modo repentino: combatte per divincolarsi. Allora gli concedi altro filo e lui sembra placarsi, ricomincia a nuotare leggero, immagini le pinne muoversi nell’acqua scura, caute e rallentate. In quest’istante di tregua apparente cominci a intonare la canzone preferita da tuo padre, quella che lui cantava a mezza voce, la domenica mattina, chiuso in bagno. La sussurri appena:

Pugni chiusi per tutto e per sempre
in me c’è la notte più nera.
Occhi spenti nel buio del mondo
per chi è di pietra come me.

Ora capisci che in quelle parole c’era la sua essenza, la rabbia mal celata, tutta la malinconia dei suoi silenzi. Quelle parole incarnavano la dignità di uomo d’altri tempi, la tessera di partito numero centoquarantasette, la fatica del lavoro in fabbrica, gli scioperi, le delusioni politiche, l’indignazione per l’Italia dei giorni nostri.
L’ennesimo strattone ti coglie impreparato, la canna quasi ti sfugge dalle mani e per non lasciarla cadere entri in acqua, ti avvicini al cavedano. Tremi. Lo sconosciuto sull’altra sponda cammina senza pace, gesticola usando il bastone come una falce contro nemici invisibili. In pochi istanti, la canzone dei Ribelli svanisce e con essa la voce di tuo padre. Riacquisti faticosamente la posizione, l’odore del fiume pizzica le narici, la sorpresa lascia spazio alla rabbia.
Tu invece di respirare e riprendere il controllo perdi la pazienza. Sei certo di aver ferrato il cavedano a dovere, sei convinto di averlo stancato, vuoi portarlo a riva nel più breve tempo possibile.
Allora, non gli concedi pace: recuperi senza sosta, immagini di vederlo apparire dalle acque sconfitto, sfinito con la coda che si muove lentamente nell’acqua bassa. Invece, ora come mai, la parte superiore della canna segue la trasformazione geometrica di un arco in un ricciolo appena accennato. Il cavedano resiste e combatte, tanto che i bicipiti ti fanno male per i suoi scarti disperati e repentini. A un tratto, il galleggiante risale improvviso in superficie, per sparire per sempre. Uno strattone violento e sfuggente ti svuota d’energia le braccia. Dalla mollezza del filo, intuisci la fuga del cavedano in acque più profonde.
Percorri con lo sguardo il movimento monco della lenza sull’acqua. Ti auguri di vedere il cadevano tramortito, spinto a riva dalla corrente. Ti scuote un brivido di freddo. Hai i piedi completamente bagnati.
Le lacrime ti scendono improvvise sulle guance per la durezza della sua assenza, per tutte le occasioni perdute, quegli abbracci rimasti contratti in piccoli avvicinamenti mai definitivi.
«Lo faccio per tuo bene.»
Così diceva quando ti rimproverava.
Tu non credi di essere diventato un uomo migliore di lui. Ti asciughi la faccia con il dorso della mano ma gli occhi continuano a bruciarti. Lo sconosciuto sull’altra sponda del fiume è scomparso. Il vento tiepido ti accarezza inconsolabile: sei solo al mondo.

E proprio, verso le undici del mattino, quando stavamo per andarcene tuo padre ha ferrato un cavedano. Mi sembra ancora di vederlo: la canna appoggiata al bacino, il dito sull’archetto del mulinello. Recuperava con lentezza e poi lasciava un paio di metri di filo. Più che una lotta sembrava un corteggiamento. Tuo padre costringeva il cavedano a nuotare controcorrente, il pesce invece cercava la profondità rimanendo al centro del fiume. Assecondare e recuperare, concedere filo per costringerlo alla resa. Una tattica vincente: dieci minuti più tardi, il cavedano è risalito in superficie, esausto e lucente, gli occhi fissi, la coda quasi immobile. Tuo padre allora si è chinato, l’ha accolto fra le mani, l’amo gli aveva trafitto il labbro. Con delicatezza, gli ha aperto la bocca per liberarlo, con un movimento rotondo della mano, dall’inganno. Gettato di nuovo nel fiume, il cadevano è rimasto per qualche secondo immobile, nell’acqua bassa, a boccheggiare spaesato, poi ha ricominciato a nuotare con lentezza verso acque più fonde. Non c’è più tempo, disse tuo padre. Adesso dobbiamo proprio tornare.

L’alba del giorno in cui sei nato, tuo padre viveva il suo tredicimilaseicentotrentunesimo giorno di vita. Aveva lasciato tua madre in ospedale ed era andato a pescare per qualche ora con Giovanni, il suo migliore amico. Sapeva che da quel giorno avrebbe vissuto giornate ancora più impegnative, poco tempo per gli amici, la politica, la pesca. Finalmente era nato suo figlio: l’atteso e possibile riscatto di una vita. Nessuno poteva immaginare che esattamente tredicimilaseicentotrentuno giorni dopo quella giornata di luglio, tuo padre si sarebbe spento in un letto anonimo d’ospedale, nel silenzio pudico e dignitoso in cui si rinchiudono i vecchi quando soffrono, lontano da tutti gli amici, i buoni propositi della giovinezza, i risentimenti e le acque lente e irrequiete del fiume.

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