Qualche anno fa ero sempre triste. Rimasi triste per un tempo che a me sembrò molto lungo. Sequenze d’indistinguibili giorni, duri e grigi come soldatini di piombo in marcia sulle mie macerie. Ne ricordo uno solo. L’ultimo giorno triste.
Ero andato al fiume per ubriacarmi. Portavo con me due bottiglie di vino liquoroso del color del fango. Mi sedetti al sole, per darmi fastidio, a un metro dall’ombra sottile di un albero a punta. Le cicale cicalavano, io guardavo l’acqua scivolare sui ciottoli metallizzati. Avevo dimenticato il cavatappi, allora spezzai il collo della bottiglia su un sasso. Bevvi vino fangoso e schegge dal collo spezzato. Ero così desolato che non riuscivo ad aver voglia di smettere d’esserlo.
Avevo terminato da poco la prima bottiglia quando arrivò una ragazza. Era così bella che le cicale smisero tutte insieme di cicalare. Recava un paniere col coperchio nell’incavo del gomito.
Si sedette accanto a me, disdegnando l’ombra, graziosa tra le pietre fradicie. Guardava me che guardavo il fiume. Io smisi di guardare il fiume e guardai lei. Mi guardava così bene che mi vergognai di non saperla guardare altrettanto bene. Avevo appoggiato per terra la bottiglia rotta, accanto alla bottiglia piena.
Che cosa bevi?
Un vino fangoso.
Vuoi del vino migliore?
Non so se lo merito.
Chissà.
Chissà.
Restammo silenziosi. Cominciavo a scordarmi d’essere triste.
Io merito di non bere sola. Bevi con me.
Non dissi niente. Era così bella che avrei voluto nascondermi nel suo paniere.
Estrasse poi dal paniere una bottiglia di vino bianco, due bicchieri di plastica argentata e un cavatappi rosso brillante.
Aprì la bottiglia e riempì i bicchieri. Io mi pulii la bocca con una foglia, poi bevemmo. Il vino era freddo, così buono che mi pentii di aver chiamato vino quello che avevo bevuto prima. Mi domandai se quel paniere fosse un paniere refrigerato, ma non osai chiederle nulla. Era così bella che non sapevo se le stavo parlando o se stavo immaginando di farlo.
Ogni tanto metteva la mano nel paniere, raccoglieva un anello di calamaro fritto e lo mangiava.
Ti piace il vino? Forse mi chiese.
Sì. Credo che risposi.
Vuoi un calamaro? Può darsi che domandò.
Sì. Non è escluso che dissi.
I calamari erano così bollenti che mi chiesi se quella fosse una padella a forma di paniere. Anche questa volta stetti zitto.
Mangiammo decine di anelli, prima uno alla volta, poi a manciate. Ridevamo. Ero così felice che quasi ero triste all’idea di non poter esserlo più di così.
Finito il vino, ripose la bottiglia nel paniere. Di calamari non ne avanzava che uno. Le bloccai, piano piano, uno dei due polsi. Aprii le sue dita e immobilizzai l’anulare; tenevo l’anello tra le dita. Era così bella che credevo lo sarebbe stata per tutta la vita.
Mi sposi?
Forse no.
Forse no vale quanto forse sì.
Forse.
Lo sai che mi hai salvato?
Anche se non ti sposo?
Anche.
Allora vado via.
Non te lo impedirò.
Vado via.
Posso guardarti mentre ti allontani?
Solo se non hai paura che scompaia.
Era così bella che non so se scomparve.
L’ombra mi aveva raggiunto. Buttai la bottiglia piena di vino scadente nel fiume. L’altra, quella vuota e spezzata, la nascosi nell’ampia tasca dei calzoni.
Quello fu l’ultimo giorno triste.

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