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RACCONTI
Battute vittoriose
Autore:  PIETRO PANCAMO / Pubblicata il:  10.12.2008

I
Per l’intero buio del pomeriggio invernale, mi son trasmesso – a forza di cuffie spianate nelle orecchie – i brani di un cantautore comunista: Marx Gazzè.
Poi finalmente sei tornata e (ancora offesa per l’ultimo litigio) hai iniziato a metter su la cena, senza degnarmi di un solo sguardo.
«Scusa per prima», mi son perdonato, avendo colto di sfuggita una smorfia imbronciata, che i tuoi lineamenti non mollavano proprio. E avvicinandomi per eliminarla – tattica di circostanza: bisbigliarti con gioia circospetta, cioè diplomazia, qualche battuta spiritosa e accattivante – mi son trovato adiacente alla tua schiena aggrottata (voglio dire contratta). Era densa, accidenti, come una porta solida e chiusa (una porta contratta!): quindi aveva lo scopo totale (l’ho capito all’istante) di sbarrarmi completamente qualunque contatto con il tuo viso.
Ho scartato però subito l’ipotesi di scoraggiarmi. Infatti son rimasto fermo dietro al tuo corpo e mentre tu – in fila ridotta con me dinanzi ai fornelli (ed al bancone di marmo che li inglobava) – spezzavi tre uova in sequenza per cucinarle in camicia, io ascoltavo il rumore delle tue dita che stroncavano i gusci sull’orlo d’una padella, lì incaricata di sostenere i tuorli flaccidi e gli albumi rilassati.

II
Quando – al quarto scricchiolio in serie – da un altro parto infecondo (e ormai rotto) di gallina, è colato giù l’interno colloidale di bianchi e rossi melmosi (eppur nutritizi), ti ho posato le mani sulle spalle, sussurrando gaio e piano: «Se stamattina – sull’onda del battibecco generatosi spontaneo fra le intemperanze dei nostri cuori opposti (e derivato, dunque, naturale dall’amore) – ti ho insultata (se non ferita o avvelenata addirittura), lascia che ti guarisca adesso con i frizzi scherzosi del mio pen-siero antivipera, della mia zucca umoristica, del mio cervello arguto e curativo, della mia materia grigia, sì, ma non certo piatta o anonima (ed al contrario, ironica!)».
Il sospiro di pazienza che t’è salito per la schiena, scorrendo leggero attraverso i muscoli come un catenaccio sfilato via, mi ha dispiegato il permesso di continuare. Così, in preda alla fantasia, ho escogitato un paio di freddure: «Un uomo sfortunato e malaticcio – sgradito a tutti per gli acciacchi violenti che lo torturavano (ad esempio riniti contagiose o perpetue, con gran dispendio di starnuti e moccio ributtante) – traeva ormai un po’ di conforto e vita solo dal proprio mestiere. Ecco perché i suoi colleghi, decisi a sfotterlo ben bene, gli fissarono con la loctite alla porta dell’ufficio una targhetta di legno che, ovviamente incisa, riassumeva crudelmente l’esistenza del poveretto con questo motto: “SARS ET LABOR”».

III
Tu hai preso ad armeggiare con l’accendigas e io – per convincerti a trascurare il fuoco che avevi in mente – ho insistito a vaneggiare, parlando sempre col tuo dorso: «Il mio trisavolo possedeva una ditta di pompe funebri che, lungo il tempo e le generazioni, è trascorsa di padre in figlio sino ad Agenore, mio zio. Non ti sembra, a rifletterci con scrupolo, un caso – classico e lampante – di bare ereditarie?».
Un vezzo divertito (meglio: femminile!) del capo e ti sei girata.
Un abbraccio istintivo e le mie labbra han dato in un sorriso. «D’oggi in poi» - ti ho confessato - «soltanto sesso fra noi, amore. Niente più il cuore a dividerci, ti prego!».

Per i lettori (eventuali): ho allegato il periodo conclusivo del racconto, al termine della presente noterella – fra le cui estremità (“P” e “.”) passeranno (se il calcolo è sbagliato, mi scuso enormemente) due righe al massimo o un nulla più.

Eh, già: le uova in camicia non hanno – alla fine – avuto luogo.


 
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