RACCONTI> SCRITTORE > SERENA SAVI    GLI ALTRI SCRITTORI
visita il nuovo sito di Tapirulan
 
     
RACCONTI
14 ore
Autore:  SERENA SAVI / Pubblicata il:  02.11.2004

Tristissimo sabato pomeriggio al principio di aprile.
Per una strana serie di casualità la mia piccola casa, solitamente affollata d'ogni sorta di soggetto umano e non, era rimasta deserta per l'intera settimana precedente trasformando presto la mia iniziale serena tranquillità in uno straziante senso di solitudine.
Era uno di quei giorni che ricorrono periodicamente nella vita: avete presente quando il morale è così a terra che qualsiasi "disgrazia" ci succeda (per esempio il ripetersi giorno dopo giorno del nostro arrivo davanti alla fermata dell'autobus mentre il suddetto sta irrimediabilmente ripartendo), ci schiaccia tanto da farci sentire una cicca di sigaretta spenta, sull'asfalto freddo e umido, dal dolorosissimo tacco a spillo di una nostra acerrima nemica?
Avevo dormicchiato per l'intera mattinata, pur non avendo sonno, pensando che, in ogni modo, non avrei potuto trovare alcunché di meglio da fare.
Ero poi sgusciata dal letto con un terribile cerchio alla testa, come da copione, per aver tenuto troppo a lungo (14 ore, mi pare) la magica posizione orizzontale, riducendo i miei polmoni ad un'entità astratta.
In questa condizione pietosa ero poi strisciata in cucina, dove avevo ingurgitato ogni sorta di schifezza zuccherosa e non, per onorare la tipica colazione-all'ora-di-pranzo-del-fine-settimana, che in questa città si chiama "brunch", perché fa più trendy. A questa era poi seguita l'accurata preparazione di pranzo e cena per i tre giorni a venire finché, all'alba delle quattro del pomeriggio, qualcosa mi suggerì che avrei fatto meglio a dare una svolta alla mia inconcludente giornata.
Presi il coraggio a due mani e decisi che sarei andata al cinema, il che può sembrare anche un'impresa da poco, in effetti, ma tanto mi bastava a farmi sentire particolarmente intraprendente e vittoriosa. Iniziai ad avere la strana sensazione che là fuori c'era qualcosa che aspettava solo che uscissi, qualcosa fatto apposta per me e che non avrei per nessun motivo al mondo potuto perdere. E dal momento che, a parte la mia pigrizia cosmica, non avevo proprio nessun motivo che ostacolasse quel progetto, mi costrinsi a realizzarlo.
Presi il programma della cineteca: davano Fargo, dei fratelli Coen; non l'avevo mai visto e non avevo idea di come fosse, ma era alle cinque e per tanto era perfetto.
Mi vestii meglio del solito, cioè in modo del tutto normale, e abbandonai casa mia, lasciandomi alle spalle con disprezzo quella grigia sonnolenza.
Iniziai a camminare verso la cineteca, ma soprattutto verso quel qualcosa che sentivo sempre più vicino. Ero curiosa di ciò che mi ero convinta avrei trovato sulla mia strada, ma allo stesso tempo cercavo di razionalizzare, prendendo seriamente in considerazione l'idea di essere pazza e convincendomi che, con estrema probabilità, non ci sarebbe stato che il film ad aspettarmi al fondo di quella via.
Come ogni sabato pomeriggio che si rispetti, il corso iniziava a brulicare di esseri umani. A me sembrava di camminare sospesa, di essere un'entità diversa dagli altri. Mi soffermavo con noncuranza davanti alle vetrine, simulando l'aria di chi non ci trova alcun interesse.
Mi sentivo osservata ogni tanto, e osservavo a mia volta, cercando con lo sguardo quel qualcosa che magari poteva essere lì a due passi da me. Pensavo anche a quante occasioni forse avevo perso in vita mia ogni volta che quella strana curiosità per il mondo non era stata parte di me: perché in quel momento avevo la convinzione che, se avessi voluto, avrei potuto davvero cambiare il corso della mia vita...
Ormai ero molto vicina, la cineteca stava dietro l'angolo. Mi assalì una specie di frenesia: entrai quasi di corsa e vidi un atrio con poche persone che si apprestavano ad entrare in sala. Nessuno in coda per il biglietto. Un po' delusa mi avvicinai alla biglietteria e mentre aspettavo che mi si degnasse di attenzione per pagare, mi girai distrattamente dietro le spalle, senza alcun motivo.
Subito mi accorsi che il momento era arrivato, forse quella "cosa" che mi aspettavo era lì davanti a me sotto le spoglie del mio vicino di casa...
In realtà un perfetto sconosciuto che mesi prima...
Digressione: era una sera di novembre, credo, e mi trovavo a ritirare delle foto in un negozio poco distante da casa mia. Mentre aspettavo il mio turno mi guardavo attorno come al solito distrattamente e vidi questo soggetto umano: fui colpita dalla sua giacca a vento rossa, di quelle che ormai o le compri usate o le "rubi" al tuo papà che le custodisce da trent'anni. Ovviamente ciò che stava nella giacca non era niente male.
Pagai le foto e mi guardai di nuovo attorno ma, ahimè, "giacchetta rossa" era scomparso. Poi tornando verso casa lo ritrovai qualche metro davanti a me. Decisi di non superarlo, ma facevo fatica, perché il mio passo sarebbe stato naturalmente più veloce. Non intendevo seguirlo (certo che no!), ma ero curiosa di vedere quando le nostre strade si sarebbero separate. Il risultato fu che io gli camminai dietro a breve distanza fino al portone di casa mia, dove anche lui si fermò, si girò verso di me e, con aria dubbiosa mi chiese: - Ma mi stai seguendo?- e io, candidamente: - Veramente abito qui!-. Ci risi su un po' imbarazzata (e poi, scusate, ma chi si credeva di essere per pensare che lo seguissi? Uomini...) e lui mi guardò con la stessa aria poco convinta, tanto che, entrati nell'atrio mi chiese: - Destra o sinistra?-, prima di accennare la direzione che avrebbe preso lui. In ascensore poi mi chiese a che piano abitavo e, non pago, volle vedere la porta del mio appartamento. Non sembrava interessato ad altro se non a scoprire se davvero vivevo lì, forse ancora convinto di essere vittima di un qualche complotto internazionale... Io invece, contenta di aver scoperto che viveva proprio sopra di me, mi preoccupai di presentarmi, aprendo bene le orecchie per ascoltare il suo nome e iniziando a pensare a come avrei potuto rivederlo di nuovo "per caso". Non lo rividi più.
Fino a quel sabato pomeriggio di aprile ore cinque.
Fui presa da un attacco di panico, indecisa se parlargli o comprare il mio biglietto, poiché la signorina di là dal vetro aspettava solo me, ora.
Decisi di fare tutt'e due le cose contemporaneamente, con risultati semi-disastrosi. Esordii dicendogli: - Ma tu vivi nel mio palazzo! -.
Lui sgranò gli occhi come se avesse visto un extra terrestre, cioè qualcuno che di certo non aveva visto mai prima di allora.
Spesi un paio di minuti per riportagli alla mente in modo confuso la situazione in cui ci eravamo conosciuti: tentativo vano. Aveva dimenticato tutto! Lo trovavo inconcepibile. Così, un po' avvilita per la terribile figura, un po' infastidita del fatto che avesse cancellato così facilmente la mia faccia dalla sua memoria, me ne andai in sala, pensando che se quella era la "cosa" che aspettavo, bhé, non ne era valsa proprio la pena.
Mi sedetti proprio a metà sala: davanti a me la corsia di passaggio, ai miei fianchi due posti vuoti.
Lo vidi arrivare un paio di minuti dopo, insieme a una coppia di amici che prima, davanti alla biglietteria, avevo lasciato fuori fuoco.
Mi passarono davanti e lui notò che ero sola. Non so ancora bene perché mi chiese di sedermi con loro: al momento pensavo fosse solo gentilezza, o che magari si fosse accorto di me...ma a mente fredda sono più propensa a credere che lo fece per non dover trascorrere il tempo da solo con l'amico e la sua fidanzata: versione decisamente più attendibile, no?
Comunque non avevo niente da perdere e perciò decisi di sedermi con loro. Scambiammo due parole: lui, Marco, veniva da un paese sorprendentemente vicino al mio e a Milano frequentava una scuola di fotografia insieme al suo amico, Nikos, un ragazzo greco. La ragazza invece, Elizabeth, era svizzera.
Ci guardammo il film, ma la mia attenzione per le immagini che scorrevano sullo schermo era minata da diversi fattori: il fatto di avercelo lì vicino, e poi quella strana situazione; in più il film non mi entusiasmava per nulla, cosa che in un altro momento mi avrebbe oltremodo scocciato ma che, in quell'istante, non mi turbava per niente.
Cominciavo a fantasticare su quando il film sarebbe finito, sulla probabilità che Marco ed io, tornassimo a casa insieme. Forse avrei potuto trovare una scusa per evitare quella festa di compleanno a sorpresa per il fidanzato del mio migliore amico. Speravo mi si prospettasse qualcosa di meglio da fare!
Il film finì, uscimmo dalla sala e le cose, naturalmente, non andarono come immaginavo: le cose non vanno mai come immagino, e a volte é meglio così... questa era una di quelle volte.
I ragazzi avevano programmato un aperitivo in un locale dove si teneva una mostra fotografica e decisi che sarei andata con loro: mi sembrava interessante approfondire la conoscenza di tutti, in attesa di decidere che fare della mia serata.
Devo ammettere di essermi sentita vagamente fuori posto ma mi convinsi che questo era assolutamente normale. Mi chiedevo che cosa quelle tre persone pensassero della mia presenza inaspettata, senza tuttavia essere eccessivamente assalita dalle solite ansie da prestazione. In fondo, mi dissi, potevo essere tranquillamente un disastro quella sera: non sarei certo stata costretta a rivedere nessuno di loro in futuro, e questo mi sollevava.
Mi chiesero che cosa avrei fatto quella sera. Accennai della festa che mi aspettava e soprattutto della media di persone che avrei trovato lì e, sentendomi, di colpo, incredibilmente...sfigata (non trovo una definizione migliore), precisai che cercavo un'alternativa.
All'uscita dal bar Niko propose una serata a casa sua e di Elizabeth. Mi affrettai ad avvertire brevemente che non avrei, mio malgrado, presenziato alla festa. Ero in ogni modo certa che nessuno avrebbe sentito la mia assenza.
Un'ora dopo ci ritrovammo tutti davanti a quattro pizze fumanti con una scorta di diversi film da inghiottirci a raffica.
La conversazione fu rilassata, piacevole e varia. Non so come, finimmo a parlare di quante parole possiedono gli eschimesi per definire la neve: anche il vino e le canne facevano la loro parte.
Era una serata speciale: non riuscivo a comprendere come le varie casualità di quella giornata mi avessero portato lì in quella casa sconosciuta, in mezzo a persone mai viste. L'atmosfera era proprio giusta e, nonostante tutto, avevo l'impressione di conoscerli da una vita.
Niko scattò diverse foto, e mi sembrò entusiasta quanto me della piega di quella serata. Mi accorsi che gradualmente il mio interesse si spostava dalla persona che aveva scatenato tutto questo: Marco non era più il centro della mia attenzione, ma soltanto il veicolo di quella serata.
Elizabeth era una ragazza dolcissima e scoprii una sorta di strano legame tra me e Niko, qualcosa che prescindeva da ogni attrazione fisica ma che pareva più che altro la premessa per una bella amicizia.
Trascorrevano le ore, film dopo film. Elizabeth se ne andò a dormire, Marco si addormentò sulla poltrona, io e Niko restammo a parlare per ore, e tanto si dimostrò interessato ad ascoltarmi, che finii per raccontargli la storia della mia vita.
Milano dormiva tutto attorno e pareva che noi due fossimo le sole anime sveglie in tutta la città. Dei cortometraggi passavano sullo schermo ma non ci prestavamo più attenzione. Si fece l'alba.
Dalla finestra le luci dei lampioni che illuminavano la strada deserta si mischiarono con il rosa del mattino, scoprendo un volto inedito di questa grigia città.
Verso le sei Marco si svegliò, forse per la luce che cresceva, e decidemmo di incamminarci verso casa insieme.
Percorremmo quel breve tratto di strada a piedi, in silenzio. Pensai a come avevo immaginato il mio ritorno a casa solo qualche ora prima e non mi rammaricai che tutto fosse andato diversamente. Avevo gli occhi pieni di immagini di quelle ultime ore e l'atmosfera intorno mi faceva sentire come in un sogno. Sentivo chiaro il rumore dei nostri passi e dei respiri infreddoliti.
Arrivammo a casa, prendemmo l'ascensore insieme e scambiammo due parole.
- Niko mi sembra una bellissima persona! - dissi io.
- Niko è un grande! - rispose Marco.
Ci salutammo augurandoci la buona notte.
Girai la chiave nella toppa della mia vuota dimora. Non sarebbe rimasta vuota ancora per molto: tra qualche ora le ragazze sarebbero tornate e in ogni caso, non mi sarei più sentita così sola.
Oscurai la stanza e m'infilai nel letto considerando con soddisfazione che erano le sette del mattino.


 
Indice