Sei seduto, vestito di tutto punto, in una sala di attesa di una multinazionale che ti ha contattato per un colloquio di lavoro: dopo anni di studi finalmente è arrivata anche per te l’opportunità di trovare un impiego. E’ la prima volta che porti giacca e cravatta, se si esclude la prima comunione, ma alla fine il risultato ti soddisfa, anche se hai impiegato quasi tre ore solo per liberare le falangi dal nodo troppo stretto. Ma non fa niente, perché sei fresco di laurea, sei elegante e piacente – almeno così ti dice sempre la mamma – e stamattina, per precauzione, ti sei per giunta lavato tre volte i denti dopo aver mangiato menta a colazione. Non solo dirai grandi cose, ma risulteranno pure balsamiche al naso! Sei comunque un po’ nervosetto, senti che la pezzatura sulla tua camicia deve aver raggiunto livelli da allarme rosso, e che la tua giacca nera nella zona ascellare è ancora più nera. Mentre strizzi i kleenex con cui hai tentato di asciugare la giacca, la segretaria ti viene a chiamare.

Finalmente è il tuo turno, con un groppo in gola varchi la soglia dell’ufficio del capo del personale, che ti allunga cortesemente la mano. Rimani abbagliato dal Rolex che porta al polso e così inciampi sulla moquette azzurra, ma sei stoico quanto e più di Nedved (ma se è un tuffatore, ndDel-antisportivo) e riesci a rimanere in piedi nonostante lo sgambetto ricevuto, regola del vantaggio dice l’arbitro, e si prosegue: stringi la mano del tuo interlocutore in modo deciso, da vero uomo. Solo ora ti accorgi di avere le mani più viscide di una biscia che ha trascorso tutta la vita in una friggitrice di MacDonald: ti pulisci la mano nella giacca e il capo del personale ti imita, mentre andate ad occupare i vostri posti. La tensione in quei primi secondi è tale che attraversi l’ufficio per raggiungere la poltrona in un completo stato di apnea: se fossi sott’acqua, i giornali parlerebbero di te come del novello Maiorca o Pellizzari. Comunque ce la fai, riesci a sederti ed a ridare ossigeno ai polmoni ed al cervello. Si inizia. Il capo del personale apre il colloquio spiegandoti brevemente il profilo professionale che l’azienda sta cercando e tu, con una frequenza inversamente proporzionale al tuo livello di comprensione, accenni dei “sì” con la testa per fargli capire che stai capendo. Alla fine del suo discorso, hai due certezze: non hai capito una madonna e hai un tremendo dolore cervicale. Comunque, come da copione, gli dici che sei interessato al lavoro e che non hai sognato altro nella vita che fare quello.

Il capo del personale comincia a scorrere in silenzio il tuo curriculum, preparato precedentemente sulla scrivania, ed ogni tanto ti lancia sguardi indecifrabili inarcando un sopracciglio a cui rispondi prontamente con un sorriso a trentadue denti, che sa di menta e plastica. “Ingegneria si scrive con la ‘gn’ ” ti fa osservare lui, leggermente seccato. Ma tu sei elegante, piacente, simpatico e culturalmente preparato: “Uhh? Lapis freudiano!”, ti scusi in modo saccente nel tuo perfetto latino, il tutto sempre con quel sorriso di menta stampato sulla faccia. Ma lui non sembra comprendere e ti guarda come fossi un extraterrestre. “È la-ti-no!” gli spieghi comprensivo, facendogli pure lo spelling. Il direttore del personale decide quindi di passare ad altro e ti chiede, in un tono così neutro da fare invidia ad una crema idratante, di precisare meglio il ruolo della tua ultima esperienza lavorativa, che hai inserito nel curriculum come “un’intensa attività di marketing relazionale finalizzata all’incremento delle quote di mercato della ditta Barbagallo e figli”. Cominci così a raccontare di quando accettasti la proposta del signor Barbagallo, proprietario dell’omonima macelleria, per fare volantinaggio al mercato rionale.

È una bella storia la tua, molto colorita, soprattutto nel punto in cui, durante quella giornata di volantinaggio al mercato, la polizia ti aveva manganellato scambiandoti per uno spacciatore; purtroppo il direttore ti interrompe bruscamente ancor prima che tu possa cominciarla, cambiando nuovamente argomento. Una vena prende visibilmente a pulsargli sulla fronte stempiata.

Cominci a temere che il colloquio stia prendendo una brutta piega, le cose ti stanno forse sfuggendo di mano, ma, come un acrobata che si getta nel vuoto, hai la sicurezza di riuscire a recuperare in tempo il trapezio della situazione. Da fine psicologo quale ti ritieni essere, sai bene quanto le aziende diano importanza al lavoro di squadra, e così non ti lasci sfuggire l’occasione per raccontare della tua squadra di basket e del suo buon comportamento in campionato, tralasciando dettagli insignificanti come il fatto che tu sia solo il custode della palestra e che a malapena conosci le regole del gioco. Ma anche questa argomentazione risulta inefficace, anzi il tuo interlocutore comincia a guardare l’orologio con sempre maggiore impazienza, finché, in un solo attimo, appallottola il tuo curriculum e lo getta nel cestino con una bomba da tre.

Ciuff!!! “Anch’io amo il basket” ti dice lui, accompagnandoti fuori dalla stanza con uno strano ghigno impresso sulla faccia, stando ben attento a non darti nuovamente la mano.

Mentre torni a casa, fai ripassare mentalmente il colloquio sostenuto poc’anzi e sei sicuro di aver destato una buona impressione nel capo del personale, infatti, nel salutarti, ti ha rivelato che difficilmente potrà dimenticare quest’incontro. Anzi, prima di chiudersi la porta alle spalle, si è persino messo a ridere dopo averti detto di non perdere di vista il cellulare, che ti avrebbe sicuramente chiamato lui per il secondo colloquio.

Che sagoma questo capo del personale! Sei riuscito più simpatico di quanto avessi preventivato.
“Eh, sì!” pensi soddisfatto, “indubbiamente è stato un buon colloquio di lavoro”.

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