Sono le 04:30 del mattino, Cristo!
Il cielo, sopra la finestra di casa mia, è un tappeto di velluto nero, buono per giocarci a biliardo con gli amici. E ci sono pure le stelle in cielo, tante, che mi viene da pensare al Natale, quando mia madre con un colpo di interruttore faceva luccicare di mille luci quel tronco di plastica verde, che voleva spacciarmi per abete silvestre.
Bel deja vù del cazzo. Già!
Resta il fatto che ora sono qui,sotto il portone di casa, una valigia vuota ai miei piedi aperta come una bocca fracassata, vestiti sparpagliati ovunque nel cortile, e lo scalpo biondo grano della mia donna ancora tra le mani.
Pensavo di conoscerla la mia donna, mi dico, osservando l’oro dei suoi capelli. Ma così incazzata la mia donna non l’avevo vista mai. Un’arpia senza coda né ali, la mia donna.
Cerco di fare chiarezza nella mia mente ancora ottenebrata dal sonno e rimbambita dalle grida dell’arpia, mentre raccolgo i cadaveri dei miei vestiti schiantati al suolo. Cerco di capire come ho fatto a finire qui, in questo macello di camicie, jeans, cravatte e giacche da due soldi.
Milano, ecco dove ero, dove eravamo. Io e la mia donna, quattro anni fa.
Avevo appena sostenuto la tesi, con un certamente non memorabile monologo sulle relazioni tra internet e il mercato B2B, tanto che la commissione in quei 12 minuti non aveva fatto altro che sbadigliare e guardare l’orologio.
“Ma chissenefrega”, mi dicevo, mentre li osservavo e parlavo e parlavo. Quello era il mio ultimo giorno lì dentro, finalmente stavo per voltare l’ultima pagina della mia esperienza universitaria, e non importava se quella pagina fosse un po’ sgualcita o stropicciata.
Finalmente avrei cambiato aria.
Basta vivere a Milano, tra scatole di cemento, smog e aperitivi, che nel giro di pochi anni avevano reso il mio fisico tonico come un budino al cacao.
La mia laurea era un biglietto di sola andata: stavo per rientrare nella mia piccola città di provincia, dispersa tra i campi e la nebbia, pronto a rivedere le facce di un tempo e a ricucire quelle amicizie logorate dalla mia permanenza milanese.
Ma quello non era certo l’unico compito ad attendere il ritorno del figliol prodigo, perché sì, avrei anche dovuto cercarmi un lavoro: con la laurea in mano, avevo purtroppo esaurito le scuse per farmi mantenere dai miei.
Un modesto 77 su 100 fu tutto ciò che riuscii a spremere dalla commissione, ma l’inebriante libertà di essere fuori per sempre da quelle mura e da quelle aule, annientò la voglia di recriminare su un voto che avrebbe potuto essere forse più alto.
Così mi ritrovai con la mia donna sulla strada che conduceva alla mia macchina, io e lei, ridenti e abbracciati, che a guardarci da lontano non si capiva dove finivo io e dove iniziava lei. Io, in completo nero, camicia bianca e cravatta a rombi blu e azzurri, borsa a tracolla e un sorriso bianco stretto in tasca. Lei, per l’evento, si era presentata in giacchetta e gonna verde abbinati, da togliere il fiato solo a guardarla, con i capelli biondi, lunghi e morbidi sulle spalle, che chiedevano solo di essere accarezzati.
Non ricordo bene di cosa stavamo parlando, mentre percorrevamo i marciapiedi a me familiari del quartiere che mi aveva ospitato in quegli anni, ma ridevamo forte, come due ubriachi.
Eravamo nella via delle copisterie dove, nelle prime settimane dall’inizio dei corsi, si accalcavano studenti giovani e meno giovani per fotocopiare i libri di testo, in barba ai diritti d’autore. Tutto era lecito pur di risparmiare qualche soldo, che tanto poi se ne sarebbe comunque andato in sigarette o cocktail caraibici.
Ma quella era anche la via dove abitava il Drudo, un mio compagno di corso occhialuto e panciuto, che vestiva con magliette bucate e jeans sformati.
La finestra del suo appartamento era aperta. Forse era in casa. Una casa che conoscevo bene.
Lì avevo trascorso molti dei miei pomeriggi a studiare, ma che irrimediabilmente finivano per trasformarsi in concerti, lui con il suo basso e io con la sua chitarra a strimpellare vecchi pezzi grunge di cantanti ormai morti e sepolti, almeno fino a che i cinesi della porta accanto non minacciavano di chiamare i ‘calabinieli’.
Il Drudo, con quell’aspetto trasandato e una pigrizia a dir poco molesta, era il perfetto prototipo di cazzone, ma, a differenza mia, lui gli esami li passava sempre, anche se fino al giorno prima, le fotocopie del libro da studiare giacevano intonse sull’ultimo scaffale di cartone della sua libreria Ikea. Che testa, il Drudo. Un vero genio, quel cazzone!
Io e la mia donna passeggiavamo tra i miei ricordi, finché non le venne voglia di fumare.
Solo allora si accorse di non avere la borsetta con sé, la borsetta che le avevo regalato per il suo ultimo compleanno.
“Oddio!”, esclamarono le sue labbra sottili, ancora schiuse dalla sorpresa.
“Ho perso la borsa. Il mio portafogli, il cellulare!”
Io, per evitare di farmi rovinare il giorno di festa, entrai nel primo bar a far rifornimento di sigarette, sperando che la nicotina la aiutasse a dimenticare la sua borsetta.
La mia idea funzionò abbastanza bene perché, tempo un paio di tiri, la mia donna si tranquillizzò quel tanto che ci permise di pensare alla faccenda con un po’ di distacco.
Tra volute di fumo, che si alzavano dalle sigarette formando nuvolette sopra le nostre teste, si potevano leggere, come in un fumetto giallo, le teorie sulla misteriosa scomparsa della borsetta.
“L’hai dimenticata a casa?”
“Forse l’ho lasciata in università”
“Non è restata in macchina, vero?”
Giunti a quel punto, l’unica cosa da fare era seguire una pista, fino a che quella borsa non fosse saltata fuori, in un posto o nell’altro: formulare altre ipotesi serviva solo a generare altre domande senza risposta e ad ingoiare altra nicotina.
“Abbiamo parcheggiato qui vicino, meglio controllare prima la macchina” propose, indicando la strada davanti a sé, “al massimo torniamo indietro per vedere se l’ho piantata in università”.
“Roger, capo!” le risposi, mettendomi sugli attenti come un buon soldatino dal sorriso furbo.
Spegnemmo le cicche contemporaneamente, usando il medesimo tacco della scarpa e impiegando lo stesso tempo, tanto che la preoccupazione, con la buffa sincronicità dei nostri movimenti, si stemperò definitivamente in una risata.
Lasciati il Drudo, le copisterie e il mio passato alle spalle, ci dirigemmo spediti e rinfrancati verso la mia macchina, che bellamente oziava in fondo alla strada.
Eccola laggiù, la mia Passat, nel suo color verde vertigine. Vertigine, non verde oliva o verde bottiglia o verde non so cosa. Vertigine, perché le auto non sono fatte per volare, ma per stare ben piantate per terra con i loro piedi di caucciù; purtroppo l’eccentrico zio americano di mia madre (pace all’anima sua), che passava sei mesi all’anno in Italia e altri sei in Florida, se ne fregava delle leggi della natura e non voleva saperne di separarsi dalla sua auto durante i suoi spostamenti, così la faceva volare da una parte all’altra dell’oceano.
“Quel colore è lo stesso di chi soffre di vertigini”, diceva mia madre, e così quel verde, appartenente ad una gamma cromatica a noi ignota e partorito da chissà quale pennello a stelle e strisce, era stato battezzato da mia madre “verde vertigine”. Con la scomparsa dello zio americano, deceduto durante la permanenza in Italia, la Passat e quel suo colore anomalo, memoria metallizzata di innumerevoli voli transoceanici, vennero affidati ad un nuovo e più sedentario proprietario, il sottoscritto.
Qualcosa non andava però.
C’era qualcosa di strano, di insolito.
Cazzo ci facevano quei due tizi così vicini alla mia macchina?
Accelerai il passo, mentre la mia donna mi domandava dove stessi correndo.
Correvo dalla mia Passat, da quei due tizi. Ecco dove stavo correndo.
Uno, grosso e tozzo, aveva incollato il suo brutto muso e i suoi lunghi capelli unti sul finestrino del passeggero, l’altro, smilzo e dinoccolato, se ne stava più in disparte, finché non si avvicinò per porgere un qualche arnese al suo compare.
“Cristo santo, mi vogliono rubare in macchina!”
La mia donna si mise a gridare come una sirena impazzita, io mi trasformai in un centometrista dopato e incazzato nero, mentre Stanlio e Ollio alzarono la testa dal verde vertigine della mia macchina e videro arrivare dall’altra parte della strada una furia in giacca e cravatta e fresca di laurea.
Si dice che in particolari situazioni la percezione del tempo cambi, che l’incedere dei secondi possa dilatarsi in interminabili minuti, ore, giorni, settimane. Ed è proprio ciò che accadde in quei momenti, io che correvo e non arrivavo mai, la traiettoria infinita dell’arnese in mano al ciccione, un martello, che calava verso il finestrino della mia Passat e le urla senza tregua della mia donna, colonna sonora di un film spazzatura anni 70.
Ma, come dicevo, erano secondi.
Non minuti, né ore e nemmeno giorni.
Perciò sentii l’esplosione del finestrino, un colpo sordo, di qualcosa che si spiaccicava, certamente non di cristalleria in frantumi.
Coriandoli di vetro volarono nell’aria, quasi galleggiando, mentre lo smilzo, quella parodia di Stanlio, si interpose tra me e il suo compare, che con la sua lercia mano stava frugando sul sedile della mia macchina.
Gli gridai non so quale bestemmia, mentre gli saltai addosso, sperando che Dio fosse impegnato da qualche altra parte. Perché Stanlio non lo avrebbe salvato neanche Dio in persona.
Da piccolo avevo visto più volte tutta la serie di Rocky, Mike Tyson era il più giovane campione del mondo dei pesi massimi e conoscevo a memoria i film di Bruce Lee. Bhè, tutta questa cultura non servì a un bel niente, quando io e Stanlio ci rotolammo per terra, sullo slancio della mia carica.
Vidi l’asfalto, grigio e sporco, venirmi addosso, sentii il sudore di quel bastardo, mentre i brandelli del finestrino laceravano i miei pantaloni, le mie cosce, i miei stinchi.
Non riuscimmo a rifilarci nemmeno mezzo pugno, avvinghiati come eravamo, ma solo strette, gomitate, ginocchiate e morsi da cani rabbiosi, mentre Ollio si agitava come un ossesso due piani più sopra, gridando al suo compare di battersela.
Quel ciccione aveva la borsetta della mia donna in mano!
L’aveva davvero dimenticata in macchina, la borsetta. La borsetta che le avevo regalato per il suo compleanno!
Cercai di rialzarmi. Involontariamente calpestai con un ginocchio i testicoli di Stanlio, e i suoi polmoni si svuotarono di colpo, le sue mani si fecero di pasta frolla e mi mollarono per reggere ciò che rimaneva del suo inguine.
Le grida della mia donna mi riempirono le orecchie.
Zitta, cazzo, ti sto salvando il culo, chiama la polizia!
Mi rimisi in piedi con gli occhi fissi in quelli porcini del ciccione, ma la mia donna non la smetteva di urlare. Il martello del ciccione mi sfiorò la faccia, prendendo in pieno l’altro finestrino della macchina. Seconda esplosione. Casino. Vetro. Dappertutto.
“Quanto sei lento, ciccione?”, gli urlai come una bestia feroce.
Non ero più un uomo, ma, sì, una bestia, e quel lardone il mio pasto. Lo brancai, spingendolo contro la portiera della mia macchina e ciò che restava dei miei finestrini.
Il martello precipitò per terra, ma le mani del ciccione si chiusero sul mio collo, sulla mia cravatta a rombi blu e azzurri.
Io, di rimando, gli afferrai i capelli e cominciai a tirare, sperando che il dolore gli facesse mollare la presa. Non respiravo più, ma gli avrei strappato la testa dal collo prima di morire. Il ciccione urlava, io soffocavo, la mia donna gridava e io tiravo. Forte. Duro. Folle. Muori, bastardo!
“Perché gridi?” dissi in un bagno di sudore, i muscoli delle braccia provati.
Piangeva, lei piangeva. Si teneva la testa e piangeva.
“Mi hai strappato la testa, brutto spostato del cazzo!”, rispose con la voce rotta dalla paura e le lacrime agli occhi.
La testa? Ma cosa dice questa?
Non capivo.
Mi guardai le mani, erano rosse per lo sforzo, ma soprattutto piene di capelli, di lunghi capelli biondo grano. I capelli della mia donna.
Il mio sguardo si fece punto interrogativo su lenzuola bianche, perchè non ero su una strada di Milano, ma nel letto di casa nostra. Erano le 04:21 del mattino, tra poco meno di tre ore la sveglia sarebbe suonata e io mi sarei alzato per andare a lavorare.
Prese a schiaffeggiarmi, insultarmi. Mi scagliò contro la sveglia e io, come un automa in pigiama, mi alzai, convinto che questo fosse il sogno e gli avvenimenti di quattro anni prima la realtà.
I capelli della mia donna erano stretti tra le mie mani come un trofeo dorato della battaglia contro quei due bastardi.
La borsetta, alla fine, me l’avevano rubata e non fu mai ritrovata. Nemmeno quei due. Ma lo scalpo del ciccione, pensai con un accenno di sorriso sulle labbra, quello sì lo portai con me.
Senza chiedere scusa per ciò che avevo fatto, ignorai i suoi strilli e raccolsi il primo pacchetto di sigarette a tiro, prima di infilare la porta di casa.
Aria. Avevo bisogno di aria per ridestare il cervello. E fumo. Fumo per i polmoni.
“Dove vaiiii?” sentii urlarmi alle spalle.
L’eco disperato della mia donna rimbombò per le scale, piano dopo piano, senza scalfire il mio torpore interiore.
Scesi in cortile. Proprio nel momento in cui cominciò a piovere.
Piovere vestiti.
