Quella che vi andrò a raccontare è la mia storia, la storia vera di un uomo e degli inizi del suo successo e dei suoi tentativi per inseguirlo.
Uscito dall’università a 30 anni suonati, solo perché ce ne misi quasi 5 a trovare l’uscita, dimenticando così il motivo per cui ero entrato, mi posi una domanda esistenziale: e ora?
Mi resi conto di essere ad un punto critico, sull’orlo di un baratro oltre il quale non avevo più scuse da raccontare ai miei genitori per continuare la mia vita da mantenuto, da parassita domestico: basta sprecare i soldi di papà con la scusa di professori bastardi che richiedevano a noi poveri studenti di preparare ogni singolo esame su centinaia di libri diversi, ora i soldi che avrei sperperato in fumo, alcolici, cinema, discoteche, concerti, viaggi e così via sarebbero stati solo e soltanto i miei.
Si era conclusa un’epoca ed un’altra stava per cominciare.
Come sarei potuto sopravvivere in quella giungla chiamata vita, senza l’aiuto di nessuno, contando unicamente sulle mie forze?
La prima cosa che capii era che trovare un lavoro era la risposta a quella domanda.
Capii anche una seconda cosa: ero fottuto!
Cominciai a vagliare lo spettro di possibilità lavorative a mia disposizione.
Scartai subito l’ipotesi di intraprendere la carriera dell’ingegnere per evidente inadeguatezza: i capelli erano ancora al loro posto e non portavo occhiali spessi come fondi di bottiglia.
Conoscevo la fisica, ma quando mi ritrovai con entrambe le gambe fratturate dopo essermi lanciato dalla finestra del bagno per salire al piano superiore, realizzai che la fisica e le leggi di gravità non le padroneggiavo un granché.
Mi buttai quindi nel commercio elettronico, ma l’unico risultato degno di nota fu di ritrovarmi con la carta di credito clonata, uno stormo di creditori davanti alla porta di casa pronti a linciarmi e una bolletta del telefono salatissima a causa di un virus che mi aveva connesso il PC ad un server della Nuova Guinea.
Fu chiaro che la scienza non faceva per me, meglio tentare il successo nel campo umanistico. Decisi di gettarmi nella letteratura, d’altronde se in libreria c’era spazio per Emilio Fede e Bruno Vespa, perché non poteva essercene anche per me?
Scrissi un romanzo breve e lo spedii ad una casa editrice.
Me lo ritrovai nella cassetta della posta il giorno dopo.
Scrissi un romanzo lungo e lo spedii ad un’altra casa editrice.
Me lo ritrovai nella cassetta della posta il giorno stesso.
Scrissi una raccolta di racconti e la spedii, all’ennesima casa editrice, ma solo dopo aver rimosso precauzionalmente la cassetta della posta.
Passò poco meno di un quarto d’ora, quando la mia raccolta di racconti mandò in frantumi la finestra del tinello, atterrando nel camino acceso, che improvvisamente cominciò a tirare come mai aveva fatto prima.
Riposi la macchina da scrivere in soffitta e mi diedi alla filosofia.
Lessi Locke, Kierkegaard, Schopenauer, Marx, Aristotele, ma abbandonai non appena mi resi conto di non aver capito neanche il sommario di quei tomi.
Misi da parte le mie velleità umanistiche, gettandomi in qualcosa di più pratico, di più manuale.
Non mi cimentai come muratore: in vita, non fui mai in grado di costruire niente, nemmeno una torre di sabbia col secchiello.
Provai a fare l’elettricista: era così bello maneggiare tutti quei fili multicolori. Fu meno bello quando scoprii di aver causato un black out su tre quarti del territorio nazionale.
Allora tentai il mondo dello spettacolo, facendo il mimo alla radio, ma la trasmissione venne cancellata dopo la prima puntata per mancanza di ascolti.
Eravamo alle soglie degli anni novanta e dopo quest’ennesimo insuccesso barcollavo sull’orlo della disperazione, mi dissi che non ero buono a niente, che un inetto come me non era ancora stato inventato. E fu allora, nel momento di più profonda disperazione, che ebbi l’illuminazione: non era la Madonna quella che mi era apparsa su un immenso cartellone pubblicitario durante un anonimo pomeriggio metropolitano, ma il volto di un uomo dalla pelle abbronzata e fresca della migliore clinica di chirurgia estetica del paese, attraversato da un sorriso smagliante, con più denti che tasti in un pianoforte, ed incorniciato da sottili capelli sparuti e impomatati di lucido da scarpe.
Finalmente capii la mia strada, compresi d’un tratto il mio destino e la mia vocazione, perché solo allora, osservando religiosamente quel volto, mi resi veramente conto che niente era perduto, che possedevo ancora tutte le carte in regola per un lavoro a cui non ebbi mai prima a pensare.
Il politico.
