Da giorni facevo le prove: mi mettevo distesa sul letto, a mani giunte. Una volta rubai addirittura un ciclamino dalla pianta di mamma sul terrazzo e lo tenni fra le mani tutta la notte. Quella sera mia sorella entrò a piedi scalzi, si accostò al letto e se ne andò com’era venuta, lasciando socchiusa la porta. Arrossì la mattina dopo, quando mi vide in cucina alla solita ora, china sulla scodella del latte. E subito s’imbronciò, quasi dispiaciuta che non fossi morta per davvero. Sss, feci sottovoce, è un segreto… Lei distolse lo sguardo, lo faceva sempre. Non mi offendevo: quello era l’unico momento in cui il mio sguardo e il suo si in­contravano. Il mio occhio storto provava allora una specie di gioia, le mandava un sorriso lieve.
Cominciai il gioco per Maddi, soltanto per farle piacere.
Mia sorella aveva i capelli scuri e una carnagione di pesca, pareva una Madonna. I suoi occhi erano una benedizione, trasparenti come perle; i miei, invece, sfuggivano di lato, brutti come l’orlo sbeccato del bricco per il latte. Maddi osava guardarli soltanto di nascosto, e anche allora pareva li studiasse, come si fa con un insetto: credo cercasse, da qualche parte in loro, l’origine dell’errore. Ci stupivamo entrambe della nostra so­miglianza. I miei capelli erano scuri come i suoi, eppure parevano sbiaditi. Accanto a lei, io stessa sbiadivo. Eravamo come attaccate per le piante dei piedi, lei di sopra, io di sotto, cosicché vivevo solo di riflesso. Mia sorella aveva per me un’ostilità che lasciava senza fiato. Ma anche disprezzandomi − quasi che tutta la mia vita, non solo il mio occhio, fosse uno sbaglio − non poteva allontanarsi da me. Io l’amavo, non potevo non amarla. E più le volevo bene, più mi sentivo sola. Tutto di lei fluiva in me, cieco, rovesciato, come il sole in una pozzanghera: Maddi mi scorreva sul viso come una lacrima di seconda mano. Come gli uccelli, i gemelli si dividono in chi cerca tutte le note e chi si accontenta di ripeterne una soltanto. Io ripetevo quell’unica nota, la più profonda. Non ero felice, ma svolgevo il mio compito, con umiltà.
La sera dopo giocai di nuovo a morire, di nuovo lasciai accostata la porta. Lei tornò. E la sera dopo anche; e poi di nuovo. Da bambini le notti sono lunghe un’eternità, io attraversavo fret­tolosamente le giornate per arrivare al traguardo. Cosa aspettano i bambini? Io aspettavo che mamma andasse a dormire; allora mi mettevo distesa, al buio. Maddi arrivava e finalmente ap­poggiava la testolina sulla mia coperta: con tenerezza, tanto che mi sembrava di non conoscerla affatto.
Fuori, oltre i tetti, lungo la strada non asfaltata, le baracche dei fiorai rimanevano aperte tutta la notte, i vasi colmi di fiori recisi, circondati da nugoli di zanzare. Un giorno, chissà, Maddi e io saremmo morte per davvero (oppure a noi non sarebbe toc­cato morire?). Nell’attesa, ci sbiancavamo le labbra a forza di morderle, lasciando le finestre spalancate perché il cielo ve­glias­se su di noi. A volte i suoi capelli mi restavano impigliati nelle unghie e la mattina dopo, appena sveglia, li conservavo nella scatolina dell’anello, regalo per la mia prima comunione (l’anello che non si poteva mettere, con lo zircone che a forza di stare al chiuso s’era fatto opaco).
Quella sera, sentii la porta della camera aprirsi, e mi parve che Maddi entrasse. Mi sembrò addirittura che l’aria mossa dalla sua camicia da notte facesse oscillare la fiammella della candela che tenevo tra le dita. Invece quella fu la prima volta (la prima) che non entrò. Dopo un’ora, forse due, la candela si spense. Al mattino, gli occhi perfetti di Maddi mi parvero più seri, stanchi.
Non tornò più, né quella notte né quelle dopo. Io non smettevo di aspettarla: con la stessa intensità, a occhi chiusi (soltanto chiusi i nostri occhi si somigliavano, finalmente). Cercavo di indovinare il suono sordo dei suoi passi, ma le notti trascorrevano senza passi, piene solo di attesa e impazienza. Era quella l’eternità? Il buio si faceva via via più scuro e poi via via più chiaro e poi via via più niente. Lei non veniva più. Sì, forse avrei potuto fermarmi: stop, fine. Invece, tutte le notti morivo per gioco. E tutte le mattine, per gioco, tornavo in vita. Era un veleno, e insieme un calmante. Può essere atroce, l’infanzia.
E Maddi? Oh, sapeva che alla fine sarei andata io da lei. Altrimenti perché, quella sera, lasciò la porta della sua camera socchiusa? Spiai. La vidi. Distesa, le mani intrecciate sul petto, la testa piegata di lato: era bella, la pelle trasparente come un ca­val­luccio marino. Ecco cosa faceva: giocava da sola. Traditrice. Da quanto tempo? Attenta, ti trema la bocca, le dissi sottovoce. Non era vero, volevo solo farla arrabbiare. Lei ebbe come un fremito, ma non si mosse. Respirava appena, sotto la camicia da notte. Respiri corti, che le lasciavano il petto quasi immobile. Giocava bene, niente da dire. Il suo morire era sottile come un velo; il mio, al confronto, era una mascherata. Maddi sembrava conoscere a fondo qualcosa di cui io intuivo soltanto l’inizio. Mi faceva rabbia il suo gioco solitario, quella mania di rubarmi sempre tutto. Mi stesi muta ai piedi del suo letto, come un ca­ne. Perché aspettare? pensai, e lei mi lesse nel pensiero. Sì, perché aspettare? Chi comincia? Tirammo a sorte, toccò a me. Il gioco era semplice: non respirare nemmeno per un attimo. Fi­no a quando? chiesi. Fino a sempre, rispose. E quand’è sempre? Sem­pre è sempre.
Trattenne il fazzoletto sulla mia bocca con delicatezza, per aiutarmi a non respirare (era quella la regola). Mi premeva sulle labbra, e premendo mi spingeva ancora più sotto: glugluglu. Quanti secondi passarono? Dieci, quindici, mille, il tempo esatto che divide il gioco dalla realtà. Maddi era sempre più lontana, in cima a una montagna. Lasciò che io vincessi al primo turno. Aspetta, non sono pronta! le dissi alla fine. Ma lei non sentì. Oppure sentì, ma non volle fermarsi. Il mio occhio storto sbatteva, impazzito. Eppure fui brava. Rimasi immobile. La mia prova migliore. Solo in ultimo ebbi un sussulto come un uccello che non riesce a prendere il volo. E finalmente tutto si rovesciò. Io sopra, lei sotto. Lei pesante, io leggera.
Vado ancora a trovarla di notte, ogni notte, per darle la rivincita (“vado”, ma non c’è arrivo né partenza). Le sue guance di­ventano sempre più pallide, il naso più ossuto. Ora ha al dito il mio anello con lo zircone. Discutiamo, furiosamente. La prenderei a schiaffi. Le trecce scure sulle spalle, i denti serrati sul labbro di sotto, ancora prova a piegare la testa per non guardarmi negli occhi. Ma non può: dall’alto dove sono, le piovo nel pensiero. Dice che non vuole giocare, che non giocherà mai più. Dice che ora è diverso. Che coi morti non si gioca.

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