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Tapirelax
30.04.2013
IO COME TE SONO
Autore: Zumba

Mi sembra che era il novantadue, o il novantatré, quelli erano i tempi che Linuzzo se ne uscì pazzo. Era il novantadue, o il novantatré, non mi sto ricordando con precisione che anno era: o il novantadue o il novantatré.
Erano i tempi che ancora a Mazzeo le granite migliori si mangiavano da Saro Ponchio, che ci venivano a mangiarle magari i carusi di Forza d’Agrò, di Castelmola, di Spisone, di Letojanni. Che quelli di Letojanni, piuttosto che traversare la strada e venire a Mazzeo e darci soddisfazione a noialtri, si mangiavano magari le granite del bar Squalo di Tremestieri, che Mimmo Scecchigno dice che fanno un feto di cozze marcite che non ci puoi stare manco a un metro.
Era il novantadue, o il novantatré, e a vicolo Torto ancora la putìa di Linuzzo prosperava. Erano precisamente i tempi che alla putìa di Linuzzo c’era un traffico di clienti come manco al teatro greco a ferragosto. Perché il film tutti l’avevano visto, e all’inizio Linuzzo di tutto quel traffico e quel bordello era stato felice come un picciriddo. A quelli che ci chiedevano se quella era la putìa del film, e se lui era lui, propriamente lui, Nicola Travaglia l’ortolano, quello che i picciotti di Cozzamara ci sparano contro, Linuzzo diceva che certo, certo che era lui, e rideva, e abbracciava e baciava tutti, e saltava, e si metteva tutto dritto e orgoglioso come se il film l’aveva fatto lui, e sudava come quando il sedici luglio di vent’anni prima, il giorno della Madonna del Carmine, per fare una sorpresa a sua moglie Carmela che festeggiava l’onomastico se l’era portata al cratere centrale tutto vestito di lana e fustagno, che si pensava che c’era freddo al cratere, tremilaecinquecento metri sul mare non sono una minchiata, e invece al cratere c’era caldo come alla Playa di Catania.
Era il novantadue, o il novantatré, poteva essere ottobre, l’estate se ne stava finendo, che passata l’ondata dei turisti e dei curiosi alla putìa se ne era arrivata quella dei camurriusi. I camurriusi di via Durante che a Linuzzo ci scassavano la minchia da qualche dieci anni, col silicone nei lucchetti o con altre camurrìe, e che ora che tutti lo conoscevano ci venivano magari di più a darci fastidio. Se ne venivano a gruppi di cinque o sei a chiederci con la loro funcia di minchia quanto costavano le banane, a fotterci la frutta e la verdura da sotto il naso, a rovesciare le cassette e a chiederci perché Johnny Stecchino aveva fatto il nome suo e della sua famiglia.
Linuzzo aveva cercato di stare calmo, di non reagire, di pensare, invece che a loro, alle cose belle, che quell’estate con tutta quella pubblicità aveva accucchiato soldi come le tre estati prima tutte insieme. Ma dopo tre mesi di questa camurrìa, che i soldi accucchiati ormai se ne erano andati tutti, mulingiana fottuta dopo mulingiana fottuta, melone fottuto dopo melone fottuto, piricoca fottuta dopo piricoca fottuta, poteva essere Natale del novantadue o del novantatré, se ne era andato con la sua Arna milletré al comando di Giardini per denunziarlo, a quello.
Tutta colpa sua e del suo spacchio di film, aveva detto ai carabinieri. Quei camurriusi non mi scassavano la minchia a me se non diventavo Nicola Travaglia l’ortolano. Io sono Linuzzo, no Nicola. Ma per colpa di quello, ora io per tutti sono Nicola Travaglia l’ortolano, e a me mi vengono a pigliare per il culo e mi vengono a fottere le cipolle la racina e magari gli ananassi, e questa cosa mi gonfia la minchia e lo denunzio, a quello.
E per cosa, lo denunzia? Ci avevano detto al Comando.
Lo denunzio per furto, va bene? Ci aveva risposto Linuzzo.
E che c’entra lui, il furto l’hanno fatto altri. Denunzi a quegli altri, non sono quegli stessi che ci misero il silicone nella serratura, nell’ottantanove? Ci avevano detto al Comando.
Me ne fotto del silicone dell’ottantanove, io denunzio a lui. Aveva risposto Linuzzo.
E per cosa, lo denunzia? Ci avevano detto ancora al Comando.
Lo denunzio per calunnia, così va bene? Ci aveva risposto ancora Linuzzo.
E questa che è, calunnia? E’ tutta pubblicità quella che ci ha fatto quello. Ci avevano detto dopo ancora al Comando.
Allora lo denunzio per pubblicità che io non volevo e mi gonfia la minchia. Ora lo prendete un verbale, per cortesia?
Al comando poi ci avevano spiegato, parlando piano come si fa con gli scimuniti, che la denunzia per pubblicità che lui non voleva e ci gonfiava la minchia non esisteva da nessuna parte, ma mentre spiegavano ai carabinieri ci veniva la liscìa che quasi ci ridevano in faccia, perché spiegare una cosa così chiara e palese a Linuzzo che fino a tre mesi prima pareva una persona normale e quasi intelligente era un po’ da pazzi, e magari perché mentre Linuzzo ci parlava di denunziare a quello, loro pensavano che quello era precisamente il comando dove quello, nel film, andava a portare la banana che aveva fottuto propriamente alla putìa di Linuzzo.
Linuzzo era uscito dal comando di Giardini con la minchia ancora più gonfiata. Tornando verso la putìa si diceva nella testa che quello la doveva pagare. Ma quando ci veniva questo pensiero, subito dopo il pensiero se ne andava al film, e precisamente alla scena al teatro quando a quello ci dicono che la deve pagare e lui si pensa che deve pagare la banana e butta cinquemila lire e dentro il teatro scoppia il bordello. E quando ci veniva il pensiero di questa scena la minchia ancora di più si gonfiava, perché si ricordava la felicità della prima volta che aveva visto il film, quattro o cinque mesi prima, sulla seggiola buona di casa, sua moglie tutta nervosa e fiera che se ne stava in piedi e si era messa il vestitino leggero, e il telefono staccato come la sera di Italia Argentina dei mondiali del novanta che poi era finita come era finita. E poi si ricordava la felicità magari di quando i turisti se ne venivano alla putìa a fare le fotografie e a baciarlo, e lui saltava, rideva, sudava e contava i soldi. E poi si ricordava la felicità di quando, alla fine della scena che avevano fatto insieme, quello ci aveva detto che era stato bravo e dopo se ne erano andati loro due soli da Saro Ponchio a mangiarsi una granita di cioccolatto con la panna sopra e sotto che quello a Firenze o dove spacchio stava non se la poteva mangiare mai.
Quando poi era arrivato alla sua putìa, e si pensava che la minchia più di così non si poteva gonfiare manco col compressore di Turi Funcia, scendendo dalla sua Arna milletré verde metallizzato che aveva comprato nell’ottantasette poco prima che smettevano di fabbricarla perché i capi dell’Alfa Romeo avevano capito che era troppo brutta per essere un’Alfa Romeo (ce l’aveva detto Salvo Panza la sera che si erano bevuti due bottiglie sane di Nerello Mascalese), aveva trovato sulla serranda una scritta fatta con un chiodo, una scritta sottile sottile che però anche se era sottile si leggeva perfettamente perché tutto intorno alla scritta c’era un cerchio verniciato verde come l’Arna che ci calamitava gli occhi dentro.
Nicola Travaglia l’ortolano pigghiamelo in mano.
Aprì la putìa come una furia, entrò, gettò all’aria mulingiane e piricoche, prese a tumpulate i muri il pavimento e tutte cose, si mise a gridare e poi a piangere come un picciriddo, calò la serranda quando con le loro funce di minchia si fecero avanti curiosi e camurriusi, e dopo un’ora di questo bordello si addormentò appoggiato a una cassetta rotta di pomodori.
Uno dopo l’altro, tutti se ne andarono. Restai io solo, dritto come uno stocco, davanti alla serranda calata.

ZUMBA [casamichiela@gmail.com]

 

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