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Tapirelax
01.03.2013
MUSIC CORNER - 50
Famosa rock band italiana. Tre lettere
Autore: UfJ

La neve scende a frappe e imbianca l’Appennino e le colline che si genuflettono gradualmente nella direzione del fiume. Massimo Zamboni guida piano, con prudenza. Nell’autoradio c’è il cd autoprodotto della Rigoletto Records. Massimo ascolta le tracce una dopo l’altra, muovendo la testa a tempo con la musica. Al termine dell’ascolto Massimo è quasi arrivato a Parma. Nel corso dell’intervista coi ragazzi della Rigoletto dovrà certamente parlare di sé, della sua carriera musicale, della sua storia personale. Qualcuno gli chiederà di Ferretti, ne è certo. Succede tutte le volte. Risponderà, come ha fatto tutte le altre volte. E parlerà del suo cammino, delle sensazioni di questo miniviaggio in paltò attraverso un’Emilia che respira piano e alita fuori un vento azzurrino, freddo come la Groenlandia.
“Ascoltavo il cd e intanto pensavo che ciascuno di quei ragazzi canta molto meglio di me, pensavo che ciascuno di quei musicisti è capace di arpeggi che io non posso neanche sognarmi. Eppure sono qui sul palco e a quanto pare l’ospite sono io”. Massimo finge sorpresa ma sa bene il motivo per cui sul palco c’è proprio lui. Il motivo è che Massimo e i suoi compagni di viaggio in trent’anni hanno saputo raccontare questi anni disgraziatamente multiformi meglio di chiunque altro. Pensateci bene: correvano gli anni ottanta, vi ricordate la situazione? Discoring, popcorn, la Rettore che mostra le tette, la disco music cedeva il passo all’europop. A Sanremo vincevano i Ricchi e Poveri, Albano e Romina, Ramazzotti. Bisognava fare qualcosa. Subito. I CCCP sono stati il piede di porco infilato per allargare la fessura, i CSI sono stati la carica di tritolo per fare saltare tutto per aria, i CPI (acronimo per Consorzio Produttori Indipendenti) invece hanno costruito una fervida scena musicale con i detriti.
“Eravamo giovani e volevamo andare al confine. Niente Londra, né Parigi. La frontiera era Berlino, dove le due Europe dolorosamente convivevano. Vivevamo nei quartieri più poveri, quelli a ridosso del muro. A quesi tempi la Storia si scriveva lì”. Massimo racconta la turbolenta tournée in Unione Sovietica coi Litfiba, la consapevolezza dei CCCP di essere unici, di essere qualcos’altro. “Al pomeriggio invece di provare recintavamo il palco con del filo spinato. Volevamo dimostrare al pubblico che il coinvolgimento non ci interessava. Il nostro non era un vero e proprio concerto, ma più una rappresentazione”. Sono parole controcorrente. Negli anni in cui tutto è revival Massimo prende coraggiosamente le distanze da quegli anni 70 coi quali è (stato) così facile empatizzare, anni iniziati con una rivoluzione culturale e terminati con uno schianto micidiale chiamato eroina. “Non eravamo realmente incazzati. Ferretti doveva urlare più forte che poteva, io mettevo al massimo il volume della chitarra. Sbottavamo per vincere la timidezza che avevamo dentro”.
Poi i CCCP sono finiti. Sono finiti e basta, come quel muro, che prima c’era e poi semplicemente non c’era più. Le cose erano cambiate, sì, ma perché? “Nel mondo tutto era messo in discussione. E noi? Noi ci chiama il produttore eccitato come non l’avevo mai sentito e ci urla nelle orecchie ragazzi siamo su Topolino! Ecco come sono finiti i CCCP”.
Il viaggio dei CSI è altrettanto tortuoso e interessante. Massimo parla della Mongolia, di Fenoglio, del primo posto in classifica, del tour nei palazzetti gremiti.
“Siamo alla fine del 1999. Terzo millennio, millennium bug. L’aria era frizzante, ricordate? C’era questo vago retrogusto di millennarismo. I CSI non hanno più nulla da dirsi. Decido di lasciare la band. Mi sento come se mi fosse crollato il mondo addosso. Una sera vado a trovare mia madre, lei mi dice di rilassarmi un po’ mentre prepara la cena. Piglio la Settimana Enigmistica, mi siedo in poltrona e mi metto a fare un cruciverba. Famosa rock band italiana. Tre lettere. Appoggio il giornale e la penna. Ho lucciconi agli occhi”.
Del decennio successivo, quello dei progetti solisti, quello del viaggio interiore, dell’isolamento, Massimo non parla tanto. Lascia che a parlare per lui sia la sua canzone forse più bella, Sorella sconfitta, che esegue per noi in un silenzio commosso. Poi il diario sul viaggio in Mongolia, un romanzo, gli album solista. Negli anni più recenti, il sodalizio artistico con Angela Baraldi, lo spettacolo Ortodossia e il nuovo album, sempre con Angela. E ora Spleen, lo spettacolo teatrale che Massimo porta in giro assieme a Piergiorgio Casotti.
Uno spettatore alza la mano e chiede a Massimo di raccontare il suo rapporto con il territorio. “Quando dici che sei Emiliano il tuo interlocutore fa sempre un sorriso. Lo sapete che San Prospero, il Santo patrono dell’Emilia-Romagna, mise in fuga i nemici che insidiavano Reggio Emilia evocando la nebbia? Vivere in questa terra significa sentirsi protetti”.
Massimo legge un estratto da Mongolia in retromarcia e uno da Spleen. E’ il tempo di qualche altra domanda, poi le foto di rito e i saluti.
Se mai leggerà queste righe chiedo scusa a Massimo per avergli messo in bocca parole che non ha detto. Sono andato a memoria, cercando di ricreare il senso complessivo, a discapito della fedeltà.
Durante la serata volevo alzare la mano e fare una domanda. Non l’ho fatto perché mi sembrava una domanda impertinente, troppo personale. Però ora la domanda la faccio a Massimo da qui, in modo che se non vuole rispondere possa semplicemente ignorarmi. La domanda è questa. Massimo, se ora ti squillasse il cellulare, se impugnando il telefonino vedessi sul display la scritta Giovanni Lindo, ecco,se succedesse tutto questo tu che faresti? Risponderesti o no?
Grazie della visita, Massimo. In bocca al lupo e buon viaggio.

UFJ [ufj@tapirulan.it]

 

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